«Neri meno intelligenti», quel Nobel resta un mistero

«Neri meno intelligenti», quel  Nobel resta un mistero

Le considerazioni del premio Nobel James Watson sulle capacità intellettive dei neri mi hanno indotto a rintracciare fra i miei libri uno scritto (del 1929, ma edito da Cappelli nel 1957-62) dello scienziato francese Charles Richet intitolato «Elogio della biologia». Preciso che Richet, premio Nobel nel 1913, fu pacifista e filantropo. In questo saggio, egli, riferendosi ai neri, tra l’altro scrive: «Di fronte a noi questi fratelli inferiori sono dei barbari e d’altra parte, dal punto di vista anatomico, essi si accostano molto più alle scimmie di noi sia per il cervello che per lo scheletro che per gli stessi costumi. La psicologia dei negri è infantile ed essi sono quasi incapaci di manifestazioni artistiche e scientifiche. Essi sono certamente degli uomini e di conseguenza meritano il rispetto e la nostra solidarietà, ma questi sentimenti non debbono spingerci fino a permettere delle unioni profane che avvilirebbero la nostra razza bianca superiore». Certamente bisogna «storicizzare», però...

Già, caro Chinnici, un altro Nobel (per la medicina). Un filantropo (gli è dedicato un ospedale, specializzato in geriatria, alle porte di Parigi). Un pacifista militante e assai attivo, un uomo di cultura, membro dell’Accademia delle Scienze, studioso, forse il più illustre, di parapsicologia (termine da lui coniato), prefatore dei lavori di Emilio Servadio, il padre della psicanalisi italiana. Ne ha di titoli onorifici, ne vanta di virtù civili, Charles Robert Richet. Peccato per quel neo che tuttavia pare non ne comprometta, quantomeno in patria, la memoria. Positivista sfegatato, prendendo le mosse da Sparta, da Platone e da Aristotele si gettò infatti nello studio e nella elaborazione dell’eugenetica, dedicandovi in seguito un ponderoso volume - La selezione umana - dal quale presumo sia tratto L'elogio della biologia che lei è andato a scovare nella sua biblioteca. Inutile precisare che Richet non fu mai oggetto di critiche per quella che oggi si definirebbe la deriva razzista della sua scienza. Né gliene furono rivolte postume, a meno di non considerare tali, ma sarebbe un errore grossolano il farlo, l’oblio a cui furono destinati i suoi lavori sull’eugenetica. D’altronde si seguita a mitizzare la Bibbia dell’Illuminismo, l’Encyclopédie di Diderot e d’Alambert, dove alla voce nègre - negro - c’è, se mi si permette l’espressione, da rimanerci secchi. Tanto da far apparire Charles Richet un paladino dell’integrazione.
Se, storicizzando ben bene, possiamo non dico giustificare, non sia mai, ma almeno capire Richet, resta un mistero cos’abbia spinto James Watson a rispolverarne le tesi. Perché va bene che guai se si mette la mordacchia agli scienziati, tuttavia gli scienziati medesimi hanno in genere ben presente la forza dissuasiva di quell’improponibilità che nelle forme salottiere assume il nome di correttezza politica. Perfino uno col caratterino di Galileo Galilei dovette farne i conti (nessuno ha mai creduto a quell’«eppur si muove» detto fra i denti. Lo pensava, certo; ne era convintissimo. Ma gli inquisitori l’avevano persuaso che era meglio chiuderla lì, «inginocchiato avanti di voi Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali»). Forse, caro Chinnici, il bandolo della matassa lo dobbiamo cercare nelle dichiarazioni di Rita Levi Montalcini, un altro Nobel, tanto per cambiare. Ritenendolo «un genio» punto e basta, la nostra gagliarda senatrice a vita escluse che Watson avesse fatto quella dichiarazione. Aggiungendo: «Forse lo ha detto Storace».

Avvalorando - caso esemplare di eterogenesi dei fini - la giustezza scientifica della affermazione di James Watson, per il quale «la teoria secondo cui la capacità raziocinante è uguale per tutti è falsa».

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