Nessuno si fida della Siria. Tranne il premier

Arturo Gismondi

Massimo D’Alema non avrà certo preso alla leggera l’uccisione a Beirut di Pierre Gemayel, ministro del governo Siniora, esponente di una famiglia politica nella quale si riconosce la popolazione cristiana del Libano. Quanto a Romano Prodi, che nei giorni scorsi era in Egitto, si sarà pure accorto dell’accaduto, avrà pensato ai rischi che l’ennesimo delitto politico fa gravare sul Libano ove sono duemila soldati italiani.
Mentre sul Paese dei Cedri tornano a gravare le nubi di una guerra civile, il ricordo va all’aria compiaciuta con la quale Prodi e D’Alema appena qualche settimana fa comunicavano al mondo che l’Italia aveva assunto un ruolo di guida nel progetto di una missione militare in Libano fra l’esercito israeliano e i «guerrieri di Dio», gli hezbollah armati di migliaia di missili forniti loro dall’Iran attraverso le frontiere siriane. L’orgoglio di Prodi e di D’Alema si nutriva delle lodi da parte di governi che alla missione non partecipavano, e dalla quale anzi avevano cura di tenersi lontani.
La missione era in sé positiva, ha interrotto una guerra in corso, ha dato vita a “un cessate il fuoco” che si tratta ora di trasformare in una pace meno precaria. L’ambiguità della missione, però, apparve chiara fin dal primo momento, e venne colta dalla stampa di tutto il mondo. La risoluzione 1701 dell’Onu dalla quale è nata la nostra presenza in Libano, individuando nei guerrriglieri filo-iraniani hezbollah il pericolo maggiore di una ripresa della guerra, ne ordinava il disarmo, senza tuttavia chiarire a chi spettasse un simile compito. Nei giorni scorsi, mi è capitato di seguire in uno dei Tg della Rai un servizio sui nostri soldati in Libano. Bene equipaggiati, bene armati, se ne stavano sul bordo di una strada sulla quale si svolgeva un traffico intenso, mentre un cronista spiegava che quei soldati, se notavano qualcosa di sospetto non potevano fare altro che segnalarlo all’esercito libanese, il più inefficiente e malfido stando lì per conto di un governo del quale fanno parte ministri hezbollah. Allo stesso modo è proibito ai nostri soldati, e agli altri, persino di controllare le frontiere siriane dalle quale affluiscono i missili, poiché Beirut considera la misura una violazione della sua sovranità.
Nei giorni scorsi i ministri hezbollah si sono dimessi dal governo di Siniora giudicando insufficiente il loro ruolo rispetto al potere acquisito nel Paese. È seguita l’uccisione di Pierre Gemayel, e gli occhi del mondo si sono volti verso Damasco. La reazione veemente della popolazione cristiana, alla quale potrebbe seguire, come successe dopo l’uccisione del premier Hariri, quella degli sciiti inquadrati dagli hezbollah, rende l’eventualità di un conflitto civile tutt’altro che remota. E l’interrogativo non può non riguardare il ruolo dei nostri soldati, per i quali la risoluzione Onu prevede soltanto di fare i piantoni nelle strade del Sud del Paese. Nei giorni scorsi Prodi ha incontrato a Lucca il presidente Chirac e fra i due sono affiorate divergenze. Chirac, che pure col mondo arabo procede coi piedi di piombo, punta il dito sulla Siria, sulle mire di questo Paese sul Libano; Prodi è apparso più cauto, nutre fiducia. Damasco, da ogni parte giudicata il problema, per il nostro premier può essere una soluzione. Non c’è proprio da stare tranquilli.
a.

gismondi@tin.it

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