Noi che siamo grigi, una volta bianchi ci sentiamo diversi. Noi che produciamo roba da toccare e da usare, o anche soltanto spostiamo soldi virtuali da un posto ipotetico a un altro ancor più ipotetico, con le nostre banche, con la nostra Borsa, una volta coperti da un lenzuolo che non è sudario ma coltre, coperta gelata, ci scaldiamo il cuore rabbrividendo.
Noi che siamo milanesi, abituati a una neve di serie B, rispetto a quella che alcuni frequentano andando a sciare, quando i fiocchi ci assediano con la forza del silenzio e del «non colore», ci guardiamo intorno straniti, ogni volta sorpresi dal dono del cielo. Aspettando il tram o il taxi, svestendo lautomobile di quel cappotto immacolato, scricchiolando i nostri passi per andare a comprare il giornale e gli altri beni di prima necessità, maledicendola la benediciamo, la neve. Ne facciamo palle senza neppure sfiorarla (per non rovinare la sua purezza) e le lanciamo lontano, verso la promessa della nuova primavera.
La notte, poi, o la mattina presto, quando lovatta umida addormenta il traffico e ogni altro rumore molesto, ci piace assaporare il vuoto, la sospensione condizionale delle nostre pene. E allora le luci dei lampioni giocano con le nostre orme, con quelle dei nostri cani, dei nostri pneumatici. Le sottolineano, disegnano candidi geroglifici. Poi il sale giallastro, come un letame caustico riduce in poltiglia impraticabile un sogno durato soltanto poche ore, la potenza immobile della neve si arrende al dovere, agli impegni improrogabili, al fare.
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