Eppure è sempre lì pronto ad affiorare nelle battute, nei ricordi, nelle paure di tutti. I grandi attori passano, ma le maschere restano vive. Fantozzi al cinema è morto vent'anni fa, da due non c'è più neanche il suo inventore Paolo Villaggio, ma quella maschera tragica è diventata un termine di paragone come Arlecchino o Pantalone, cova insomma sotto la cenere dell'italianità in continuo e inarrestabile movimento. Così basta leggere le prime righe di una lunga intervista di Villaggio alla Radiotelevisione svizzera del 1975 (pubblicata da De Piante editore e finora inedita su volume) per ritornare immediatamente dentro quel mondo surreale e grottesco che è in buona sostanza la summa delle nostre paure, il fantozzismo a geometria variabile. Non a caso, Villaggio dice che «Io sono al 90 per cento Fantozzi e per la restante parte un altro personaggio, Fracchia, anche lui nevrotico. Mentre in Fantozzi ci sono delle manifestazioni esterne, in Fracchia sono solo interne».
E, quando parla, Villaggio te lo immagini afflosciato su qualche minaccioso pouf oppure insaccato dentro un abito di gabardine tinta carne. «Fantozzi è così, è uno che rinuncia a tutto ma non a una cosa: vivere. A vivere però in una società che sa che è invivibile, e in questo è lucidissimo perché non è tonto». Villaggio parla al giornalista Arturo Chiodi della Rts quando sono già stati pubblicati i primi due libri ed è appena uscito il film Fantozzi, che lui stesso definisce un successo «come Trinità o Malizia». I primi racconti del ragionier Ugo, «matricola milleuno barra bis» erano usciti sull'Europeo dal 1971, poi furono «sceneggiati» per il primo omonimo libro e anche per il Secondo tragico Fantozzi, nonostante Villaggio avesse avvisato gli editori che «non ho voglia di rifarlo, ve lo faccio così, con la mano sinistra, in tre settimane». Risultato: mezzo milione di copie in un'epoca nella quale un successo strepitoso arrivava a 80mila. Nonostante «le meccaniche dell'umorismo non cambino da 2000 anni, da Plauto in poi sono sempre le stesse: dissacrazione di un momento grave e pomposo, scambio di persona, stravolgimento di una situazione reale in una surreale» (e immaginate il tono mentre lo dice), Fantozzi sposta avanti il focus della risata, lo attualizza anzi lo immortala. Prima c'erano i personaggi di Totò e dei De Filippo che «erano buoni, tonti, ignoranti e molto simpatici». Poi è arrivato Sordi ossia «il primo vero comico antipatico della storia del cinema italiano». Infine Paolo Villaggio in arte Fantozzi, che secondo il suo creatore non sarebbe durato «più di cinque anni» e invece è ancora qui quasi mezzo secolo dopo... Quando ha presentato il secondo libro, spiega nell'intervista, gli hanno chiesto: «Ma Villaggio, perché tragico? È un libro comico». In realtà, «in questa parola tragico c'è la chiave di Fantozzi e di questo momento storico» riassume con una punta di insospettabile ottimismo immaginandoseli destinati a finire, sia Fantozzi che il momento storico, entro cinque anni. E invece no. Con una capriola dinamica e imprevedibile, tutto ciò che era il terrore della generazione di Fantozzi (il matrimonio piccolo borghese, il posto fisso, le vacanze di gruppo, la pensione ecc...), oggi è il sogno delle nuove generazioni e il ragionier Ugo si è sublimato diventando definitivamente un «carattere» e quindi immortale. Oggi anche un «fashion influencer» può essere Fantozzi, e la sua compagnia di giro è ancora intorno a noi visto che - anche nel 2019 di streaming e update - tutti conoscono un Filini oppure una signorina Silvani della porta accanto. È il fantozzismo eterno. «Tutti quelli che hanno visto il mio film poi aggiungono: Pensi che Fantozzi è uguale al mio vicino di pianerottolo oppure che È mio cognato o Mio zio. Nessuno però mi dice la verità: Villaggio, Fantozzi sono io». A dissociare la percezione ci pensa quindi l'iperbole tipica di questa maschera, la consapevolezza disumana che tutto sarà destinato al fallimento, che la coda in auto durerà «cinquanta ore», la temperatura sarà «novanta gradi all'ombra», i pomodorini di guarnizione saranno a «diciottomila gradi» e «batti» non è un'esortazione ma un congiuntivo, «Batti lei». Queste iperboli così tragiche ci proteggono e ci vaccinano, consentendo a tutti, anche oggi, di vedere subito il Fantozzi nell'altro ma, quasi per autodifesa, soltanto a temere ed esorcizzare il Fantozzi in sé.
Naturalmente Villaggio era un uomo di grande cultura («Lo confermo, non resisto ai complimenti», risponde lui scherzosamente) e nell'intervista spazia da Hemingway a Bulgakov a Kafka che sono il suo corredo d'autore per distillare l'essenza di un personaggio che rinasce ogni dieci anni. In fondo, tutto cambia e poi ritorna. «Ora vanno di moda, rilanciati dal cinema americano, il tema della nostalgia e il catastrofico.
La risposta italiana alla catastrofe hollywoodiana è appunto il piccolo impiegato, l'omino che per anni è vissuto nel boom consumistico» dice Villaggio nell'intervista, datata - ripetiamo - 1975. «Improvvisamente c'è stato un crac» e Fantozzi «si è ritrovato in mezzo a tutte le grandi contraddizioni di questa filosofia». Siamo sicuri che sia tanto diverso da oggi?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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