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A New Orleans rinasce la speranza

Un anno dopo Katrina ci sono quartieri rinati, con prati e giardini impeccabili, ma con mucchi di macerie a pochi metri

Guillemette Faure

La scorsa estate, l’Ogden museum of southern art di New Orleans aveva programmato una grande esposizione per l’autunno 2005. La mostra si sarebbe intitolata «Missing New Orleans», che si potrebbe tradurre «Nostalgia di New Orleans», e avrebbe esibito le immagini della città nei secoli passati. Il catalogo della mostra avrebbe dovuto essere stampato il 31 agosto. Due giorni prima della data prevista, l’uragano Katrina colpiva il golfo del Messico, facendo crollare le dighe che proteggevano New Orleans. Stampato due mesi più tardi, il libro si arricchì di uno struggente capitolo supplementare, e i visitatori della mostra, allestita poi in novembre, poterono inserire nei loro appunti i ricordi della New Orleans pre-Katrina.
Allo stesso modo in cui Katrina ha drammatizzato la portata profetica di un’esposizione nostalgica, così l’uragano ha dato un enorme colpo di acceleratore a tutti i mali di New Orleans. Quando l’80% della superficie si è ritrovata sommersa dall’inondazione, una città dalla popolazione già in declino si è improvvisamente svuotata. Un sistema scolastico già in decadenza è stato interamente abbandonato. Agenti di una polizia già fortemente contestata sono stati accusati di diserzione e di furto, mentre erano incaricati di vegliare sull’ordine pubblico. Ed è dal suo passato, e dall’inondazione del 29 agosto 2005, che la città deve, oggi, risollevarsi. Vista da lontano, New Orleans salva le apparenze. Il trompe-l’oeil si avvicina. I quadrati blu che si scorgono attraverso l’oblò dell’aereo non sono piscine, ma tetti ricoperti di tegole di protezione, realizzati dalla Fema, l’ente federale che gestisce le emergenze. Usciamo dall’autostrada. Le auto parcheggiate sotto le bretelle stradali sono rottami abbandonati. Nella città, si scorge il tratto cupo di un’immensa vasca di acqua sporca all’altezza di marciapiedi, finestre, tetti. All’interno di interi quartieri, le case non sono altro che carcasse, il cui interno è roso dalla muffa.
Rinasce Lakeview
Una città, che sembra emergere fra le righe. Nel Garden District, volontari del quartiere hanno organizzato una giornata di raccolta di rami secchi e cartacce, mentre all’altro capo della città squarci di case crollate non sono ancora stati demoliti e ammucchiati nelle strade ormai abbandonate. Anche se il sindaco della città, Ray Nagin, stima che metà della popolazione sia di ritorno, i progetti di ricostruzione non rispettano le schede dei danni tanto annunciate dalla Fema, ma seguono piuttosto i redditi degli abitanti. Il quartiere di Lakeview, per esempio, proprio dietro il lago Pontchartrain, è stato sommerso esattamente come quello del Lower Ninth Ward, sopraffatto dallo straripamento dell’Industrial Canal, nella zona est della città. Ma gli abitanti di Lakeview, spesso bianchi dei ceti più agiati, hanno per la maggior parte lasciato la città con le proprie auto. Potevano permettersi di trasferirsi provvisoriamente a Baton Rouge, a un’ora di macchina, per ritornare in città ogni weekend e dare un’occhiata ai lavori di ricostruzione, o per sbrogliare le faccende dei permessi per la costruzione, o discutere con gli agenti di assicurazione. I neri del quartiere povero del Lower Nine Ward sono stati evacuati con i bus e portati in luoghi di raccolta collettivi, dove qualcuno ha ricevuto in seguito un biglietto aereo per altre grandi città americane. Biglietto di sola andata. Quel quarto di popolazione della città, che viveva al di sotto della soglia di povertà prima dell’uragano Katrina, non ha i mezzi per ritornare. Si vede sì, qua e là, qualche roulotte, qualche casa abitata, nel Lower Nine Ward, ma non ci sono negozi, né banche, né ristoranti. Soltanto il 13% degli alloggi nella zona est di New Orleans sono stati ricollegati alla rete elettrica. A Lakeview, al di là degli isolati ricostruiti - diversi metri quadrati riedificati in modo impeccabile, prati di erba perfettamente curati, giardini arredati con le statuine di gesso e delle comode poltroncine, magari a pochi metri dai mucchi di macerie - si possono anche sentire le voci dei vicini rimasti, che parlano fra loro. «Lakeview ritorna», promettono alcuni cartelli infissi davanti alle case abbandonate. Diane Guevara e suo marito avvocato sono già di ritorno. A Baton Rouge, credendo che la loro casa fosse rimasta sotto le acque dell’inondazione, avevano comprato un altro alloggio. Ma scoprendo invece, al primo rientro, che la loro casa era stata miracolosamente risparmiata, vi hanno fatto ritorno, unici per ora, o quasi, nella via. Di giorno, Diane lavora come lavapiatti volontaria per la boutique-ristorante Cajun Kasher. «Se il negozio chiude, è la comunità ebraica che rischia di non tornare», l’altro negozio kasher più vicino è a Memphis. Ovunque, la ricostruzione di New Orleans sembra essere in mano alle forze del mercato, occasionalmente portata avanti, allo stremo delle forze, dalla popolazione residente che rifiuta di arrendersi. Gli abitanti di Broadmor, sentendo che il loro quartiere, situato in una conca della città, sarebbe destinato a diventare un’area verde, si sono appellati a un gruppo di studiosi di Harvard, perché si rifletta sulla loro sopravvivenza. Si sono inoltre associati per concedere aiuti finanziari a pompieri o poliziotti che volessero venire ad abitarci, sperando che la loro presenza abbia un effetto trascinante sulla possibilità di rivitalizzazione del quartiere.
«Ricostruzione avviata»
Il sindaco Ray Nagin ammette che «alcuni hanno incominciato (la ricostruzione) di loro iniziativa». Secondo lui, si tratta di «democrazia in azione». Per altri si tratta invece di lassismo da parte delle pubbliche autorità, che in un anno di amministrazione municipale, non hanno osato vietare la ricostruzione dei quartieri cittadini, anche quando questi erano pericolosi o esposti al rischio. «Il secondo piano non è stato inondato», annuncia disperatamente il cartello «vendesi» di una casa alla periferia est della città. Il sindaco ha appena annunciato la costituzione di un progetto finanziato dalla fondazione Rockefeller, per assicurarsi un sostegno coordinato per la ricostruzione dei diversi quartieri. Ma i consiglieri del progetto sono ancora in via di selezione…
Manodopera da fuori
Il coro gospel della Chiesa cattolica nera di Saint Peters è quasi al completo. Si tratta della chiesa dove Ray Nagin era chierichetto. Intorno, le strade di questo quartiere popolare sono quasi deserte. Maria, una donna honduregna, è seduta sui gradini di una casa vuota. Di che cosa fosse New Orleans prima di Katrina, lei non sa nulla. Suo marito l’ha chiamata - lei era appena arrivata in Florida un mese prima - per dirle che qui c’era lavoro. La ricostruzione ha incrementato l’arrivo degli ispanici a New Orleans. I sub-appaltatori sono passati in secondo piano. Molti tentano di ricostruire da soli. I grandi magazzini di bricolage Home Depot di notte sono sorvegliati, le pile dei sacchi di cemento e le assi di compensato sono protette da filo spinato. «Per alcuni, sono come lingotti d'oro», dice una guardia.
Per qualcuno, che ha avuto la fortuna di avere la casa risparmiata dall’inondazione, è il momento di approfittare del mercato immobiliare e di vendere. Nel Warehouse District, un quartiere rimasto intatto, Michaul’s - il ristorante dove la sera si ballava cajun - è chiuso. «Vendo perché questo è il momento giusto», spiega la proprietaria Michaul’s Babineaux, orgogliosa dei suoi locali rimasti intatti, «quando ci sono i limoni, si fa la limonata». Non si lascia abbattere. L’ha voluto Dio, sostiene questa donna, evangelista. Dio, a volerle credere, avrebbe anche ripulito la città da tutti quelli che ne spremevano le risorse, fra cui gli abitanti dei «projects», le case popolari della città, la maggior parte dei quali sono stati fatti sgomberare verso Houston.
Nel gruppo di musicisti cajun che animavano le serate del ristorante, Arnie è sempre lo sceriffo di La Forche, una città vicina. Quelli che vivevano solo di musica si sono trasferiti a Lafayette, capitale della musica cajun. Quanto ai musicisti di jazz di New Orleans, riusciranno a tornare in numero sufficiente da poter mantenere l’identità musicale della città? Una faccia conosciuta, in Frenchmen street, è Jack Fine, 78 anni. Durante l’uragano Katrina, è rimasto a casa sua con una bottiglia di gin e «nessun timore di disturbare i vicini suonando la tromba». Ci eravamo incontrati a novembre. «Si ricorda? Sono stato fra i primi a tornare», dice. Eppure, sembra disilluso, seduto su una panca, con una birra in mano, fumando al buio. «Manca qualche cosa... non posso dirvi che cosa... ».
La musica a rischio
«Ciò che sentite nei bar di Bourbon street e di Frenchmen street, è una cultura di rappresentanza - spiega David Freedman, patron della notissima radio jazz Woz - sono preoccupato soprattutto dallo stato della cultura attuale». Racconta del tempo in cui, nel suo ufficio di Treme, un quartiere popolare, sentiva da sotto le sue finestre i ragazzini che uscivano da scuola, con le loro trombe e i loro tromboni. Prende poi un vecchio calendario con fotografie in bianco e nero dei Social club di New Orleans. «È per loro che mi preoccupo, per tutte queste incubatrici della cultura musicale di New Orleans: le formazioni musicali nelle scuole, i cori delle chiese, i musicisti delle parate funebri... », spiega quest’uomo dai capelli bianchi, la cui radio emittente ha perduto circa metà delle sue 5.000 ore di registrazioni inedite. Saranno tornati i vecchi musicisti dei funerali? Continueranno le scuole privatizzate, che hanno rilevato un sistema scolastico in fallimento, a insegnare la musica anche se non figura nel programma? «La musica non deve vivere solo nei conservatori e nei jazz club, la città non deve diventare un museo del suo passato». «Oggi - aggiunge poi - il cielo è coperto».
Altri testimoni del passato di New Orleans, i tram, come «Il tram chiamato Desiderio» di Tennessee Williams, non circolano ancora in Saint Charles street, la strada che taglia il Garden District. Alcuni hanno ripreso a circolare su altre linee. Uno di questi risale Canal street, facendo scendere i passeggeri nei punti di coincidenza, deserti. «Sentite come sono tranquilli», dice il guidatore Willy Brown, dei suoi passeggeri. «Attualmente abbiamo 23.000 passeggeri al giorno. Sei volte meno rispetto a prima dell’uragano Katrina», ci spiega la responsabile della comunicazione per i trasporti pubblici. «Non immaginavo che dopo dieci mesi saremmo stati ancora a questo punto».
Altrettanto lenta la rimessa in funzione del sistema giudiziario. In un parcheggio vuoto, Elizabeth Tucker, nel suo camice da infermiera, esce dalla sua auto tenendo in mano una convocazione. «Devo far parte di una giuria». Il tribunale penale è ancora chiuso. La mandano dall’altra parte della città. In ogni caso, dirà che non ha tempo. In dieci mesi, il sistema giudiziario non è ancora riuscito a istruire un processo con giuria popolare. Circa 6.000 persone sono in attesa di giudizio. L’ufficio degli avvocati difensori d’ufficio è stato ridotto della metà. Provvisoriamente, hanno installato i loro studi in una vecchia discoteca, dove si vede ancora la sfera girevole al suo posto.
La polizia in crisi
A lato della superstrada che attraversa la città, notiamo un immenso cartellone, che rende onore al Nopd (New Orleans police department): «Vi abbiamo protetto, ci siamo sacrificati, siamo rimasti». L’ultima riga in corsivo è ben visibile. La polizia, segnata a dito per i misfatti di alcuni durante la catastrofe, cerca di ridar lustro alla propria immagine. Dopo Katrina, New Orleans ha conosciuto due mesi senza omicidi. Alcuni vi hanno visto la speranza di un nuovo inizio, per una città il cui tasso di criminalità è fra i più alti degli Usa.

Da allora, tutto è però tornato ai livelli «pre-K» e, dopo un weekend sanguinoso in giugno, il sindaco ha preferito chiamare in aiuto la Guardia nazionale per pattugliare le strade: una presenza militare, che induce a ricordare i tempi di Katrina.
Le Figaro/Volpe
(traduzione di Rosanna Cataldo)

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