Niente razzismo: «negro di m...» è solo un insulto

Dopo secoli di feroci disquisizioni, cominciamo ad avere qualche certezza. A fare chiarezza non è la Cassazione, che ha sempre l'ultima parola e molto di frequente la pronuncia pure strana, ma è comunque un tribunale della Repubblica, nell'occasione quello di Treviso: dare del «negro di m... » a un uomo del Senegal è solo un insulto, non un insulto di stampo razzista.
La distinzione è sottile soltanto a prima vista: in realtà, ai fini del giudizio, si considera decisiva l'aggiunta, rispetto al vocabolo «negro». Con questa esegesi del testo, che farà epoca, il tribunale veneto condanna il 39enne titolare di una lavanderia a 250 euro di multa, più spese processuali e risarcimento danni, per aver così pesantemente apostrofato un ragazzo africano.
L'episodio è del 2006, a Oderzo: l'extracomunitario porta capi da lavare in negozio, ma ha la disgrazia di salutare e uscire senza pagare, convinto di dover saldare al ritiro (mi autodenuncio: anch'io sono un baluba come lui). A quel punto, il proprietario della lavanderia lo investe di titoli, nell'ordine «negro di m. », «testa di c. » e «comunista» (non è dato sapere se l'ordine sia casuale o se risponda a una sua personalissima classifica di merito).
Per quanto negro, per quanto di «m. », l'immigrato dimostra comunque di aver superato brillantemente i supposti limiti razziali che il negoziante gli attribuisce: come un cittadino modello, si rivolge all'autorità competente per difendere la propria dignità offesa. E il processo, dopo l'inchiesta della Procura, riconosce le sue ragioni. Ma con un fondamentale pronunciamento: il titolare della lavanderia non ha espresso razzismo, ha vomitato soltanto volgari insulti.
Per l'Italia è una clamorosa scoperta: fino a poco tempo fa, molti di noi erano convinti che bastasse usare il vocabolo «negro» per diventare razzisti. Ne sa qualcosa il nostro direttore Feltri, che dopo i tremendi fatti di Rosarno ha dovuto scrivere un saggio di semantica per spiegare alle mammole benpensanti il significato originariamente neutro di una parola come tante. Adesso un tribunale stabilisce che neppure usando «negro» con l'optional «di m.» si cade nel razzismo. Si resta semplicemente nella stupidità, nell'arroganza, nella prepotenza, che comunque non sono attitudini molto più edificanti.
Vogliamo riconoscerlo? Rimane assurdo e avvilente, questo eterno psicodramma sui termini a sfondo razziale. Tra le tante discussioni su come nasce e come cambia un termine, sul significato letterale e su quello modificato geneticamente dalla storia, non passa mai l'unico criterio che sembrerebbe intoccabile e indiscutibile, persino ridicolo doverlo specificare: il razzismo non sta nelle parole in sé, ma nelle intenzioni di chi le usa. Non vale solo per la parola negro, vale per qualunque definizione umana. Ebreo è espressione nobilissima, ma sappiamo bene come tanti sgherri e tanti idioti l'abbiano riciclata in sanguinoso epiteto. Uomo d'onore sembra il migliore dei complimenti, ma in certi ambientini non suona più così poetico. Tutto è relativo. Libretto può essere un grande libro di piccole dimensioni, ma anche un libraccio di trascurabilissima qualità. Forza Italia è un grido corale di incitamento sportivo o patriottico, ma per qualcuno è diventato dal '94 il peggiore degli insulti.
Cosa voleva esprimere il lavandaio di Oderzo, investendo l'immigrato del Senegal, con «negro di m. »? Per il tribunale di Treviso, l'uomo non era obnubilato dall'aggravante dell'odio razziale: semplicemente, ha liberato la bestia. Che poi, assieme al multiuso universale «testa di c. », abbia urlato proprio «negro di m. » e «comunista», questo particolare lascerebbe sospettare come per lui il senegalese impersonasse le peggiori delle inferiorità umane, ma evidentemente la giustizia non ha voluto attribuire al lavandaio maggiore dignità culturale di quanta ne meriti.
Se ne può discutere, se ne discuterà ancora a lungo. Ma anche questa sentenza finirà comunque per non risolvere nulla in modo definitivo.

Soltanto il lavandaio di Oderzo sa davvero se nella sua intelligenza sopravviva il tarlo odioso dell'odio razziale. In tutti quanti noi resta invece aperto il solito dubbio: insultare un cliente senegalese con «colored di m. », eventualmente, salva dall'accusa di razzismo?

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