Politica

Niente tagli alla sanità che salva vite

Qualche giorno fa Vittorio Feltri, in un articolo ineccepibile, criticava le proteste dei governatori regionali contro i tagli della manovra correttiva ed esortava i presidenti a eliminare gli sprechi che hanno contribuito a dilatare il debito pubblico. Lo stesso direttore riconosceva che ci sono Regioni in parte virtuose e altre decisamente spenderecce, ma sottolineava che nella notte della crisi tutte le vacche sono nere e che gli impegni dell’ora non consentono di sottilizzare. Ben detto, i conti devono tornare, adesso.
Tuttavia, esistono le differenze fra Regione e Regione, in termini di efficienza e di attenzione per i cittadini. Se ho potuto scrivere questo articolo lo devo alla fortuna di essermi ammalato in Lombardia, a Milano, e di essere inciampato in alcuni centri d’eccellenza che mi hanno restituito vita e speranza.
Tutto cominciò sul finire del 2008, quando sul piede destro si formò un’ulcera sospetta. Mi rivolsi a un valente chirurgo vascolare, Roberto Zucca, primario in un’importante clinica. La diagnosi fu immediata e precisa: grassoccio aneurisma dell’arteria poplitea. Operare? Purtroppo, la mia gamba era così compromessa che un intervento d’elezione era impensabile. Ero arrivato in zona Cesarini. L’ottimo chirurgo, che era contrario per principio a ogni interventismo aggressivo, mi consigliò di aspettare: forse il killer avrebbe dormito per anni e l’operazione ci sarebbe stata solo quando si fosse manifestata la crisi. Che arrivò nel luglio del 2009, quando facevo una vita assolutamente normale, scrivendo anche per i lettori del Giornale.
Accadde di notte, i miei figli mi trovarono riverso, con la gamba che diventava sempre più fredda e insensibile. Chiamarono Zucca: la sua clinica, spiegò il chirurgo, non aveva pronto soccorso, poteva eseguire solo interventi programmati. E consigliò di farmi trasportare al Policlinico.
Arrivai lucido e stremato in un pronto soccorso affollato di feriti, sparati, ubriachi, ma dopo due minuti un giovane chirurgo ascoltò la mia storia e dispose per l’immediato intervento. Sentì il bisogno di avvertirmi: «Ci sono 50 probabilità su 100 che dobbiamo amputarle la gamba».
Annuii, lo sapevo. Fu un lungo intervento durato alcune ore, mi impiantarono un by-pass che dopo una sessantina di minuti si chiuse.
Scoccava l’ora dell’amputazione. Ma la chirurgia è fatta anche di speranza e di coraggio. Qui emerse l’eccellenza dell’équipe guidata dal professor Livio Gabrielli. I chirurghi si dissero che il paziente era relativamente giovane per subire quella mutilazione. E decisero di riprovare col by-pass. In quasi tutti gli ospedali del mondo quella seconda occasione non mi sarebbe stata data, ma al Policlinico sono speciali. Ho l’obbligo di citare tutti i chirurghi della «vascolare»: Aldo Borellini, Marco Floriani, Edoardo Martelli, Alessandro Molinari, Antonio Rolli, Livia Romagnoli, Mario Domanin, Edoardo Ippolito. Dopo il secondo intervento mi portarono in rianimazione, dove rimasi per alcuni giorni, fino a quando mi risvegliai e vidi il volto di mia moglie incorniciato dalla cuffietta sterile. Ma non c’erano soltanto i chirurghi. C’erano anche le «specializzande», due splendide fanciulle piene di tatto e di grazia. Tutti i giorni i medici venivano a visitare la mia gamba straziata; tutto era complicato da una setticemia micidiale e le fanciulle, Simona Sommaruga e Adelaide Buora, sotto la supervisione dei titolati, ripulivano il carnaio. Con bisturi e pinza asportavano i tessuti morti. Quando soffri con tale intensità, puoi affidarti solo all’autoironia e all’ironia. Mi consideravo un prigioniero di guerra – anche perché la morfina mi dava incubi terribili – e insinuavo sorridendo che le due ragazze si fossero formate in un residuo, e segreto, centro di tortura della Gestapo. Quando veniva soltanto la Sommaruga, chiedevo: «Dov’è l’Adelaide, a Norimberga per un corso d’aggiornamento?».
Ma era difficile sorridere. Dopo i primi due interventi, ne subii altri due, per la pulizia chirurgica delle ferite infette. E non nascondo che la sera posavo la testa sul cuscino sperando di morire nella notte. Ero anemico, con l’emoglobina sotto i livelli di guardia e mi accorgevo che i miei figli e mia moglie, prima di entrare nella stanza, avevano pianto.
Mi aiutarono i medici. La mia gamba matta era diventata una sfida, un trofeo: il diavolo voleva prendersela, ma c’erano i buoni a difendermi. Mi aiutarono anche gli infermieri. Le Valerie, la Valentina, l’Anna, tutte ragazze graziose, mortificate nella loro femminilità, e pour cause, nelle loro divise asettiche.
Le vedevi rifiorire quando uscivano a fine turno, nelle loro mise di donne giovani e ansiose di vivere. Da loro sempre una parola buona, un incoraggiamento, un augurio. E anche gli altri, Carmine, Salvo, Claudio e tanti loro colleghi solleciti e pronti, pur essendo macinati nel gioco di turni pesanti.
Si fa presto a parlar male della sanità. Io ne ho sperimentato l’efficienza, e non perché fossi raccomandato, ma perché raggiunsi, ultimo fra gli ultimi, in piena notte, un pronto soccorso. Ho avuto cure di prim’ordine, con specialisti chiamati a consulto per cuore, stomaco, reni. Tagliando completo. E lo stesso trattamento era riservato a tutti i pazienti, che lottassero contro la leucemia o un cancro al pancreas. Tanti pazienti. Un medico di origine indiana, un assessore siciliano convinto che nel Sud il miglior medico è l’aereo che ti porta a Milano. Un ragazzo senegalese, che in segno di rispetto per la mia età mi chiamava «zio».
Dopo oltre tre mesi di degenza, si pose il problema di chiudere le ferite orribili che testimoniavano la resecazione estrema del mio polpaccio destro. Entrò in scena il professore Claudio Renzani, chirurgo plastico, il quale realizzò un trapianto di pelle, prelevando dalla gamba sinistra e piazzandola sulla destra. Queste operazioni non sempre riescono, talvolta la pelle non attecchisce, ma Renzani è un maestro e il risultato fu del 90% medio di attecchimento.
A questo punto, anemico, smunto e depresso, fui trasferito in un istituto di riabilitazione, la Fondazione Maugeri, a San Donato. La gamba era salva, ma i muscoli erano ridotti, flaccidi e infrolliti, bisognava ritonificarli, con la fisioterapia. Anche al «Maugeri» trovai umanità e competenza, ma mi beccai una forma di dissenteria micidiale, che richiese l’uso di potenti antibiotici e limitò la fisioterapia. Nonostante il valore della fisiatra dottoressa Ghidini.
Un mese al «Maugeri», quindi trasferimento al reparto riabilitazione di «Anni azzurri», a Opera. Primario fisiatra Chieffo, internisti Ramella e Rossi, che spesso chiamavano a consulto cardiologi, urologi, ortopedici. Infermieri e infermiere, oltre agli italiani, provenienti da diversi angoli del mondo, dal Perù al Marocco, dalla Romania alla Polonia. La preziosa Luz, Zakia, Zelika, Benedetto, Federico; il tonante Orlando Maniero, che annunciava il suo passaggio nei corridoi con sonori: «Non ho parole» e ostentava cinismo, rivelando poi un tratto umanissimo e soccorrevole. Su tutti regnava l’onnipresente caposala Egizia, apparentemente un sergente di ferro, i cui occhi azzurri però rivelavano una costante attenzione per le condizioni dei pazienti e per il funzionamento del reparto. La sezione di fisioterapia disponeva di tanti giovani professionisti. Arrivavo lì con la sedia a rotelle e cominciavo a prendere confidenza con parallele e scale, coi deambulatori; ho cominciato a poco a poco a rimettermi in piedi, a fare i primi passi, e gli elettrostimolatori mi rinforzavano i quadricipiti. Un lungo lavoro durato tre mesi, nei quali ho conosciuto un’umanità dolente cui non mi sarei mai avvicinato se non mi fossi ammalato.
Anziani provenienti da tutte le parti d’Italia, ognuno con una pena e una disabilità, ricchi e poveri. C’erano quelli che avevano il conforto dei parenti e pure la badante, ma c’erano anche quelli poveri e soli che potevano contare soltanto sulla solidarietà del personale. Che non è mai mancata. Vecchietti incapaci di esprimersi, un novantacinquenne misero e solo il quale immaginava che la sedia a rotelle fosse un treno diretto nell’Oltrepo e ogni due minuti mi chiedeva: «Qual è la prossima stazione?». E io rispondevo «Broni». La novantenne distinta che citava a memoria tanti brani della Divina commedia; il facchino con una piastra nel ginocchio che leggeva Joyce e discuteva con me di Carlo Emilio Gadda. Una ex artista che contemplava continuamente le sue fotografie di ragazza e distribuiva libriccini di sue poesie stampati in proprio.
Quale esperienza, drammatica e istruttiva. E illuminante. La Regione Lombardia – e torniamo al punto di partenza - garantisce a tutti i cittadini, soprattutto agli anziani e ai disabili, un percorso di cure e di riabilitazione che è certamente notevole. Non sono certo che in tutte le Regioni d’Italia le cose funzionino nello stesso modo, anzi ho fondati motivi per sospettare che altrove le cose vadano peggio.

Oggi è l’ora dei tagli, della potatura indiscriminata, ma spero che la Lombardia mantenga i suoi primati.

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