Sulla sua faccia da dieci anni cera scritto «wanted». Come in certe storie del vecchio west, il fuggiasco, il nemico pubblico numero uno, il simbolo dellantiamerica da prendere dead or alive, vivo o morto, possibilmente morto. La storia di Osama Bin Laden viaggiava da tempo su questo binario. Il guaio è che lui non era un semplice bandito. Non era Butch Cassidy o «Brazen» Bill Brazelton, non era neppure un gangster alla John Dillinger e tantomeno Cavallo Pazzo. Bin Laden è luomo che ha sfregiato lAmerica come mai nessuno aveva fatto. Era le torri in fumo e i corpi ancora vivi che cadevano giù come fantocci. Era lo spazio bianco di Ground Zero. Per chiudere il conto si è dovuto andare in Afghanistan, fare la guerra, occupare, setacciare il territorio, passare in Irak, impiccare Saddam Hussein, scontare gli attentati di Londra e Madrid, sopravvivere in città blindate, guardare in faccia la guerra di civiltà, costruire muri lungo i confini dellOccidente, irrompere in una villa in Pakistan e quattordici minuti. I quattordici minuti sono quelli che sono serviti per sparargli in faccia. Fonti del Pentagono hanno detto alla Cnn che questa era una «killer operation»: «Dovevano uccidere Bin Laden e andarsene. Non avevano alcun interesse a prenderlo vivo».
Adesso stiamo qui a chiederci se sia stato giusto ammazzarlo. Forse è davvero meglio così. Non per vendetta. Non perché la morte di questuomo serva a qualcosa, anzi, per lislam è già un santo, un martire. Ammazzare qualcuno non è mai «giustizia». Non lo è se lo fa un esercito, un boia di Stato, la sentenza di un giudice o un individuo. La morte di Osama non è una faccenda etica. E solo per questo forse non poteva che finire con la parola dead. La caccia a Bin Laden è stata una guerra, la risposta americana a un fantasma funesto, a un nemico ombra, a qualcosa che a lungo sembrava non avere corpo, carne, ma era solo un video, una voce, una minaccia invisibile. La sua morte non è la soluzione, ma è la fine di un pezzo di guerra. LAmerica lha vinta, ma dopo una guerra i nemici, gli sconfitti, non si processano.
O si perdonano o si ammazzano.
Obama non avrebbe avuto la forza per perdonare lantiamerica. Nessuno lavrebbe avuta. Poteva portarlo davanti a un giudice e aspettare un verdetto già scritto: giustiziatelo.
La morte di Bin Laden scaccia via quelle scene di ipocrita giustizia, i processi alla storia dei tribunali internazionali, le Norimberga nate per somministrare un analgesico alla coscienza o per dare una ragione morale alla guerra. No, questa volta non vedremo un Saddam Hussein camminare sul ponte dei sospiri, guardare la forca che oscilla su un catafalco di legno, la sua barba da misero uomo, le sue colpe lavate con il sangue del codice penale, il cappuccio nero in testa per non incrociare lo sguardo di chi un giorno era stato fin troppo potente e la fine con le gambe a penzoloni. Non vedremo questo, rasserenandoci: ecco come muore un dittatore. Ecco la fine del nemico nel nome della legge.
È unaltra delle illusioni del Novecento. È il tentativo di rispondere alla domanda: cosa fare dei nemici sconfitti? Cesare alcuni li perdonava, guardò la testa mozzata di Pompeo e chiuse gli occhi per lorrore, fu irritato dal suicidio di Catone, ma Vercingetorige lo portò come trofeo per il suo trionfo a Roma e poi lo fece strozzare nel carcere Mamertino. Ai re sconfitti si tagliavano le teste. Le guerre civili finivano con la ghigliottina. Napoleone si consumò a SantElena e se davvero lo avvelenarono fu per lui un gesto di pietà. Hitler ci pensò da solo e tutti si tolsero il pensiero. La fine di Mussolini fu macabra e grottesca. Catturarlo vivo, vestito da tedesco, fu il peggio che poteva capitare. La soluzione di un processo partigiano in fretta e furia, sul posto, non aveva neppure la parvenza del diritto. Limmagine finale è piazzale Loreto, è un corpo morto che dondola accanto alle gambe fredde e nude dellamante.
La Cia ha strappato la faccia di Osama con la scritta wanted. Questa guerra è finita. Ce ne saranno altre. Quei quattordici minuti non sprecano parole. Nessuna giuria dirà: guai ai vinti.
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