No al divieto/Che illusione dire ai giovani: vietato bere

Nessuna persona di buonsenso, e di media, cultura può pensare seriamente di fare la guerra al vino. Mi limito al vino quando sento parlare di alcol, perché penso a qualcosa di diverso da una fonte di alterazione, di malattia, di ubriachezza. So che i giovani, e purtroppo anche i giovanissimi, sono soprattutto consumatori di birra e superalcolici. Io invece penso alla nostra tradizione, alla nostra cultura, a quella che, da Luigi Veronelli a Carlo Petrini, da Mario Soldati a Luca Maroni ci hanno proposto come «civiltà del bere». L’idea che due barbari ci vengano a insegnare che il vino fa male e che bisogna proibirlo ai minori di 16 anni, ha a che fare con una diseducazione, negli anni difficili dell’adolescenza, alla conoscenza e al rispetto delle cose genuine e dei prodotti della terra.
Terra madre, agricoltura, ciclo della vendemmia: storie e tradizioni che sono rappresentate nelle pietre, nelle sculture dei «mesi», nelle cattedrali romaniche. Penso a Wiligelmo, ad Antelami, al Maestro dei Mesi di Ferrara; ma penso anche agli affreschi di Schifanoia, e al Bacco di Caravaggio. Vendemmia e vino sono espressioni alte, «colte» della nostra civiltà. E man mano che passano le ore e alcuni sindaci influenzabili o suggestionabili, o madri premurose, sembrano esprimere condivisione per una proposta che mi pare quasi ridicola, penso a questa Italia delle regioni che fu per lungo tempo contadina, e quindi concreta, ragionevole, umana, penso al Piemonte, al Veneto, al Friuli, alla Toscana, al Lazio, alla Sicilia, luoghi di terre fertili benedette dal sole che hanno prodotto e producono vini gloriosi.
Provate a immaginare se la Francia, o Sarkozy, come il distratto Berlusconi che ha plaudito all’iniziativa della Moratti potrebbe mai proibire di bere vino ai ragazzi, interdire il Bordeaux, come la Moratti vuole con il Barolo, il Nebbiolo, il Brunello di Montalcino, il Cabernet, lo Zibibbo i cui soli nomi evocano piacere e poesia. Vorranno i produttori di vino italiani, vorranno i coltivatori nel Chianti, nel Valpolicella, a Pantelleria e in tutta la Sicilia, ribellarsi a questa insensata proposta che colpisce la ricca città di Milano.
Si smette di studiare il latino per l’inglese e si smette di bere il Soave per la Coca Cola. Questa è la cultura meneghina che corrisponde perfettamente ai divieti islamici contro il vino esaltato dal grande poeta persiano Omar Khayyam. Lo rimproverai al presidente del Parlamento iraniano, programmaticamente antiamericano, quando, a un pranzo ufficiale, esibendomi due deputate in burqa e silenti, a dimostrazione della loro democrazia avanzata, mi offrì Fanta e Coca Cola e non vino. Ciò che il mondo musulmano proibisce il mondo cristiano consacra, se è vero che pane e vino sono gli elementi fondamentali dell’eucarestia, i simboli del corpo e del sangue di Cristo. Per dare il buon esempio la Moratti arriverà a suggerire ai sacerdoti di celebrare messa con la Coca Cola? Ha imparato a proibire da Muccioli; e certo educare al vino non vuol dire insegnare a ubriacarsi. Occorre, se mai, limitare, con la persuasione, gli eccessi.
Ma il proibizionismo assoluto non ha limitato il consumo della droga, nonostante le buone intenzioni di Muccioli, che ha guarito malati.
Anche la ridicola campagna contro il fumo che porta ogni sera migliaia di donne in strada, disertando i tavoli a cui sono state invitate a pranzo, e che ha rovinato i marchi dei pacchetti di sigarette, le bellissime Camel, Mercedes, Marlboro, Gitanes con il timbro a lutto «il fumo uccide», non ha limitato il consumo di sigarette. Il proibizionismo non paga.

E se non intendono ribellarsi, i produttori di vino possono sperare che i divieti della Moratti favoriscano la trasgressione e aumentino il consumo di un bene irrinunciabile. Che soltanto l’ipocrisia può pensare di proibire come fumo e droga.

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