No, i beni del capo famiglia vanno destinati alla prole

Cominciamo col dire che ognuno fa, con i propri soldi, quello che vuole. E che – quanto a lasciarli in eredità ai figli – in Italia esistono delle precise disposizioni di legge: un tot spetta a loro. Il problema posto da Bill Gates (sempresialodato, per la sua invenzione geniale) è diverso. Lui spenderà gran parte in opere di bene (ancora sia lodato, secondo certe stime ha già salvato cinque milioni di bambini, facendoli vaccinare). Gates ha deciso che lascerà ai tre figli soltanto una cifra di sicurezza, che comunque li metta nella condizione di dover lavorare per vivere. La mia ammirazione per lui ha avuto un altro picco, appena letta la notizia, come la ebbi per il fondatore e proprietario di Ikea, quando decise che la sua progenie non era all’altezza di gestire l’impero, che lasciò in mano ai dipendenti.
Si, ma nel caso in cui non si tratti di miliardi di dollari, come si devono comportare dei normali, bravi genitori? Io detti la risposta appena nacque Nicola Giordano Guerri, creando un aforisma che recita: «Il buon padre ha figli solo dopo i cinquant’anni, per lasciare l’eredità quando ne avranno più bisogno». Si trattava, ovvio, di una battuta autoconsolatoria, avendo avuto il bambino dopo il mezzo secolo. Sorvolando sui singoli casi, giorni fa riflettevo ancora sul tema leggendo un’indagine statistica fra i cittadini dell’Unione Europea. Pare che solo uno su 10 si impegni attivamente a passare «una significativa parte» dei propri averi ai figli. Un altro 42 per cento ha detto di non avere alcuna intenzione di farlo, il 48 per cento non ne è affatto sicuro.
Mi fecero impressione quelle cifre perché, aforismi a parte, non ho mai dubitato di voler lavorare e risparmiare anche – non soprattutto – per lasciare all’erede il più possibile, quanto a sicurezza economica. Sarà la mia origine contadina e decisamente modesta a farmelo pensare, con malcelata passione? Per i miei poverissimi avi, il pezzo di terra e la casa erano beni inalienabili, da dividere fra la prole. Ancora oggi, una grande consolazione della mia mamma ultranovantenne è che mi «lascerà la casa». Non è di origine contadina, invece, la mamma del comune pargolo, che la pensa come me. È già stabilito che la casa in cui viviamo, e per la quale paghiamo il mutuo, non si tocca: questa casa, o l’equivalente, sarà il patrimonio del pupo.
Non ne faccio un vanto né una questione morale. Cercherò di lasciargli il più possibile perché lo amo, perché continuerò a pensare – domani come oggi – alla sua sicurezza e al suo benessere. Perché ci tengo che lui, oltre ai miei occhi e a certi profondissimi tratti caratteriali, abbia il più possibile da me, di me. È anche un fatto egoistico, certo, questo voler trasmettere. Spero che amerà i miei libri e i miei archivi come li amo io. Ma se così non fosse, quelli glieli toglierei, li lascerei a una fondazione, a una biblioteca; di tutto il resto potrei privarlo solo se si rivelasse un pericoloso delinquente, il che tendo a escludere. Il problema può essere soltanto trovare un sano equilibrio fra risparmio e privazione. Sarebbe sbagliatissimo, credo, fare troppi sacrifici, privarsi di molto, per aumentale il capitale ereditario. Anche perché il benessere e la felicità dei genitori si ripercuotono nel benessere e nella felicità dei loro figli. Nicola Giordano - a tre anni e nove mesi – non trova molte differenze fra un buon albergo e una pensioncina, basta che ci siano anche mamma e babbo. Ma io sì, le differenze le trovo, e come.

Ne va del mio benessere, della mia capacità di lavorare, quindi di guadagnare, soprattutto ne va della mia allegria e del mio buonumore. Quindi, quasi tutto ciò che giova a me e a sua madre finirà per giovare anche a lui. E non è una scusa, giuro.

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