Mai nella vita seguirei il consiglio che il presidente Sarkozy ha rivolto laltra sera ai francesi parlando in tv: «Vendete le vostre ferie per comprare i regali di Natale». Da un punto di vista economico, ha certamente ragione lui. Aumenta il potere dacquisto, salgono i consumi, cresce il benessere generale, e anche loccupazione ne trarrà giovamento. Ma proprio questo è il nocciolo della questione: il mondo di oggi ragiona solo in termini di convenienza economica. Sono sparite le ideologie, e non è un male: ma che ormai tutto sia regolato dal mercato, è un bene solo fino a un certo punto.
Intendiamoci: è bello fare i regali di Natale. Ma è proprio necessario spendere fino a svenarsi? Fino appunto a vendere il proprio tempo? Perché di questo si tratta: vendere le ferie significa vendere il proprio tempo.
Ma poi: il tempo è davvero «proprio»? Nel senso: siamo sicuri che ci appartenga? So di far discorsi più che antiquati e di rischiare la figura del pazzo: ma per secoli lumanità ha ritenuto che no, il tempo non lo si può vendere perché non ci appartiene, è di Dio. Era quello il motivo, ad esempio, per cui fino alla modernità il prestito a interesse era considerato un peccato di usura; ed è questo il motivo per il quale i musulmani continuano a vietare il lucro sul tempo.
Oggi anche chi crede ancora in Dio certi scrupoli non li ha più. Ma non cè bisogno di scomodare lOnnipotente per capire quantomeno una cosa più semplice e verificabile: il tempo che passa non torna più, quel giorno di ferie che vendo non lo recupererò mai più. Certo potrò prenderne un altro: ma, ripeto, quel giorno che avrei potuto trascorrere con i miei bambini, e che invece ho monetizzato, è passato. Via, inghiottito dalleternità.
Eppure quel che ha proposto Sarkozy è già prassi in molte parti del mondo. In Italia lo si è fatto più volte. E negli Stati Uniti si può andare oltre: è (almeno teoricamente) permesso di vendere i propri giorni di ferie non solo allazienda, ma perfino ai colleghi. Si crea così una sorta di mercato tra due umanità ideologicamente contrapposte: chi ritiene che valga di più il tempo, chi il denaro.
A me pare una follia. Il meccanismo che regola la nostra esistenza è già abbastanza infernale. La stragrande maggioranza della nostra vita la passiamo a lavorare, e al secondo posto viene il tempo trascorso per andarci, al lavoro: stipati sui treni dei pendolari o chiusi in macchina e fermi in colonna. Ci manca solo che vendiamo le ferie. No, non ci sto: è come vendere lanima, come fece il Nero in un racconto di Guareschi; o vendere un occhio, come fece Alberto Sordi nel film «Il boom».
Mi si obietterà che ci sono momenti in cui vendere le ferie è unopportunità da cogliere al volo. Ad esempio se occorrono quattrini per pagarsi delle cure. Oppure per far fronte a un mutuo. O ancora per onorare un debito. Ma certo. Però Sarkozy - presidente che peraltro abbiamo in grande stima - non ha citato simili casi-limite. La necessità di cui ha parlato ai francesi è, più semplicemente, quella di «aumentare il potere dacquisto in vista del Natale».
Una volta il lavoro era considerato una necessità, anzi una dura necessità. Una conseguenza del peccato originale, e come tale da maledire. Non è un caso che in molte lingue e in molti dialetti «lavorare» sia tradotto con «travagliare» o «faticare». Oggi il lavoro è praticamente lunica possibilità di gratificazione.
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