Una nobildonna nell’inferno di Buchenwald

Non era ebrea né militava contro i nazisti. Ebbe un trattamento di favore e morì per le ferite causatele da una bomba americana

Quando fu condotta nel lager, Frau von Weber si sentì quasi sollevata: era un punto fermo, dopo tre settimane di incertezze. Arrestata all’improvviso dalla Gestapo e portata a Berlino, aveva trascorso il tempo chiedendosi perché. Non era ebrea, né antinazista militante, anche se detestava Hitler. Inoltre apparteneva all’alta società tedesca. Il trattamento era perciò incomprensibile.
Non sapeva, e non avrebbe mai saputo, che su di lei si erano accumulati sospetti. Malvisti erano stati i suoi viaggi a Bad Homburg e Sofia, il voltafaccia dei genitori e l’atteggiamento freddo del marito verso il regime. Ignorava pure che Goebbels l’aveva sprezzantemente definita «animale intrigante».
Appena lesse la scritta beffarda sul portone, Jedem das Seine («A ciascuno il suo»), Frau von Weber capì di essere finita a Buchenwald. Il più grande e micidiale dei lager nazisti. Il nome bucolico, «bosco di faggi», indicava cosa ci fosse lì prima che la struttura sorgesse. Dell’antica foresta era solo rimasta in piedi, e inclusa nel campo, la quercia dove Goethe amava sostare durante le passeggiate dalla vicina Weimar. Nel dopoguerra, fu calcolato che dal carcere erano passati 240mila esseri umani e che 60mila erano morti. Ma sono cifre approssimate di una realtà ben più tremenda.
La sistemazione della signora non fu delle peggiori. Grazie al suo ceto, godette di un trattamento migliore della media. Fu messa nella baracca 15 del settore Internati Speciali e la stanza 9, la sua, consisteva di ben due locali. Il vitto era quello comune, ma ebbe il permesso di acquistare liberamente dalla cantina della truppa. Ne approfittò per bere ogni tanto birra che amava molto e che le serviva anche per tenersi su, poiché mangiava pochissimo. La signora era sempre stata straordinariamente magra anche nei momenti felici, figurarsi in quelle circostanze. Il medico del campo, Gerhard Schiedlausky, un aguzzino poi condannato dal tribunale alleato di Amburgo e giustiziato, ci ha lasciato della detenuta questa descrizione: «Una donna estremamente gracile - lei stessa affermò che il suo peso normale oscillava tra 43 e 45 chili - con una statura sui 1,56-1,58... L’ossatura era minuta, piedi piccoli, muscolatura dei polpacci scarsamente sviluppata». Quest’ultima particolarità, ma il medico non poteva saperlo, era ereditata dal padre, affetto pure lui da atrofia dei muscoli inferiori delle gambe.
Le condizioni di spirito della prigioniera non erano certo migliori. Del marito, Filippo, e dei quattro figli ignorava la sorte. Non vedeva lo sposo e il figlio maggiore da un anno. Immaginava gli altri ragazzi in buone mani, così come li aveva lasciati. Ma era già trascorso un mese e chissà... Se avesse saputo, sarebbe piombata nella disperazione.
I suoi tre figli erano stati affidati dai nonni al segretario di Stato di Sua Santità Pio XII, Giovanni Battista Montini, che li aveva nascosti in Vaticano. Frau von Weber li aveva visitati e trovati bene. Ma quando nei sacri Palazzi si seppe del suo arresto, quell’ospitalità cominciò a bruciare. Il Vaticano pullulava di rifugiati ebrei, antifascisti, nemici del Reich e la presenza dei tre giovanetti moltiplicava i rischi di un’irruzione nella Santa Sede degli occupanti tedeschi. Con quali conseguenze per tutti i clandestini, è facile immaginare. Fu così che Montini, accampando il bisogno di far posto a alcuni suoi nipoti, chiese a chi di dovere di riprendersi i figli della von Weber. Usciti dal Vaticano, i tre ragazzi furono presi in consegna da Kappler, il comandante nazista della piazza romana, e rispediti nel loro castello tedesco. Nel nucleo così smembrato, ognuno ignorava la sorte degli altri. I genitori non sapevano dei figli e i figli erano all’oscuro del destino della madre e del padre, pure lui internato. Una triste situazione per una famiglia che era stata potente e felice, proprietaria di castelli in Germania e di ville in Italia, con accesso al Quirinale, a Palazzo Venezia e nelle sedi del Reich.
La bomba cadde sulla baracca 15 degli Internati Speciali a mezzogiorno del 24 agosto 1944. Obiettivo degli aerei americani erano le Officine Gustloff alla periferia di Weimar. Ma tre ordigni precipitarono sul lager. Quello che colpì la baracca di Frau von Weber era del tipo incendiario-dirompente. La nobildonna fu trovata viva, ma coperta dalle macerie con solo la testa fuori. Spalla e braccio sinistri erano gravemente ustionati. Il tentativo di salvarla con un’operazione di emergenza fu fatto la sera nel bordello del campo. Schiedlausky amputò il braccio, disarticolandolo dalla spalla. La perdita di sangue fu copiosa. Tre giorni dopo, all’alba del 28 agosto, Frau von Weber spirò. Padre Tyl, un monaco boemo internato, sottrasse il corpo al forno crematorio e lo seppellì nel cimitero di Weimar. Sulla fossa, 262, fu applicata la scritta: «Donna sconosciuta».


A Trieste, nello stesso giorno, affondava, colpita da bombe, una nave. Era l’antico traghetto Napoli-Capri, l’isola tanto amata dalla defunta, che portava sulla prora, in suo onore, lo stesso nome, ma quello vero, della prigioniera di Buchenwald.
Chi era?

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