Noi, condannati a leggere «Il Codice da Vinci»

La querelle aperta dal critico del Corsera: «Di questo passo ci si dovrà chiedere se c’è stato un tempo in cui la cultura albergasse nei quotidiani...»

Noi, condannati a leggere «Il Codice da Vinci»

Puntuale come le rondini a primavera e le code di Ferragosto, torna un argomento caro alle polemiche culturali. Sull’ultimo numero di Vita e Pensiero (rivista dell’Università Cattolica di Milano diretta da Roberto Righetto) il critico letterario del Corriere della Sera Ermanno Paccagnini accusa le pagine culturali dei giornali: non fanno letteratura ma soltanto gossip e false polemiche. Scrive: «Di questo passo mi sa che prima o poi ci si dovrà chiedere se mai c’è stato un tempo in cui la cultura albergasse nei quotidiani».
Tema non certo nuovo, ogni anno gli esperti si interrogano sulla sopravvivenza della cultura nei giornali se non come mera dicitura delle pagine che portano questa scritta sulla testata. Il cahier de doléances, con piccole varianti, è sempre lo stesso: la superficialità e la mediocrità delle firme e degli interventi, l’accoglienza di temi che non troppo tempo fa avrebbero trovato naturale ospitalità in altre pagine (cronaca, spettacoli, economia e anche esteri), i falsi scoop, la tendenza a creare casi immaginari (dalla moda del romanzo dell’anno in stile Antonio D’Orrico, ai più recenti riguardanti la richiesta di una vera stroncatura da parte di Baricco e la «censura» del Raboni postumo da parte dell’Einaudi).
Per non parlare poi della Storia, che «pare essere divenuta la Signora delle pagine culturali», scrive Paccagnini. E soprattutto la storia degli ultimi cinquant’anni. E soprattutto quella del Ventennio. E sempre più spesso in ottica revisionistica, per poter dar adito a «dibattiti che non di rado ripropongono tematiche e posizioni ben note e anche stantie, si tratti di grandi temi ed eventi o di personaggi di cui sono a conoscenza solo gli iperspecialisti» (piccola parentesi: ma Pierluigi Battista ha qualcosa da rispondere al suo critico?).
Alla dittatura del bestseller, si affianca una storia tiranna, che schiaccerebbe la letteratura e la relegherebbe a un ruolo marginale e distorto, perché anche in questo caso quando si dà spazio al romanzo o allo scrittore lo si fa cercando o la polemica o lo scandalismo o lo scoop «buono solo per gli allocchi». Insomma, sulle pagine culturali si cincischia, si va dietro all’effimero, non si fa cultura e si perdono di vista quelli che Paccagnini chiama «i fondamentali», che sarebbero i classici, il passato culturale, gli autori «seri».
Poiché ci sentiamo tirati in ballo e premesso che per certi aspetti non si può dare del tutto torto a Paccagnini, diciamo subito che neppure gli si può dare del tutto ragione. Ci sono alcuni distinguo e chiarimenti che è opportuno fare.
Dal suo punto di vista, di professore universitario di letteratura e di critico, Paccagnini ha perfettamente ragione. Ma vediamo la questione da un «altro» punto di vista, quello di chi esercita un «altro» mestiere, e per l’appunto il giornalista. Il giornalista culturale si occupa di argomenti non transeunti come l’arte e la letteratura, la filosofia, la poesia, la storia del pensiero e delle religioni, ma lo fa in maniera transeunte. Se pur non è vincolato dall’impellenza della cronaca, anche il giornalista culturale, come tutti i giornalisti, ha un padrone assoluto che è la notizia. E per notizia non si intende soltanto la morte del tale scrittore o la proclamazione del vincitore del Nobel della Letteratura o il presunto scoop. Anche l’uscita di un libro, il vernissage di una mostra, un importante convegno, quella che in sostanza è l’attualità culturale, sono notizie. Da non confondere con quelle che Beppe Benvenuto definisce gli eventi «notiziabili», cioè quelli creati ad arte dagli uffici stampa, le «notizie» inventate a tavolino, i falsi «casi letterari» e via dicendo.
Il punto quindi è: come trattare la cronaca culturale? Non certo dando conto dell’uscita di tutti i libri che vengono pubblicati o di tutte le mostre che si inaugurano (cosa peraltro impossibile visto che nel mondo si stampa un libro ogni trenta secondi e si aprono cinquanta mostre, mostricine e mostriciattole al giorno).
Il punto sta nello scegliere quali temi trattare, quanto spazio dedicare a ciascun argomento, nel taglio e nella critica a questo o a quel libro e evento. E qui si arriva a un altro punto fondamentale: quali sono gli argomenti degni di essere ospitati nelle pagine culturali dei giornali?
Poniamo a Paccagnini un caso, diciamo così, da scuola. Un libro come Il Codice da Vinci di Dan Brown vende nel mondo 50 milioni di copie. Siamo tutti d’accordo che il libro è una patacca dal punto di vista culturale e anche storico. Scritto male, sciatto, pretenzioso. Questo polpettone però crea polemiche, il mondo cattolico reagisce per le pesanti accuse rivolte contro l’Opus Dei ed è il romanzo più venduto dell’anno (e questo è un dato di fatto, una volgarissima «notizia», non un «caso» creato ad arte).
Cosa fare? Ignorare Dan Brown sarebbe sbagliato. Paccagnini e qualsiasi altro critico letterario possono turarsi il naso alla vista del libro, voltare la testa al passaggio di un lettore con Il Codice da Vinci sottobraccio, scrollarsi la polvere dai calzari e scrivere un bell’elzeviro sulla nuova edizione commentata delle prose di Niccolò Tommaseo. Noi no. Noi giornalisti culturali, che non siamo principi della cultura ma semplici valvassini se non addirittura manovali, dobbiamo occuparcene. Come? Criticandolo, facendo intervenire storici delle religioni che spieghino quali sono i falsi storici contenuti nel romanzo, oppure facendo un’inchiesta per spiegare cosa stia dietro a questo successo. Lo stesso vale per le varie Melisse P., i Moccia, le Patricie Cornwell e gli altri bestseller.
Capisco che tutto ciò sia da catalogare come effimero, abbia poco a che vedere con i «fondamentali», ma se le pagine culturali dei giornali non fossero legate all’attualità (e anche al chiacchiericcio) sarebbero pagine di riviste letterarie e specializzate, molte delle quali fanno un ottimo lavoro, ma sono un’altra cosa. Sarebbero un salottino asfittico, quello che lo stesso Guido Piovene evitava con cura e definiva con sprezzo «il ghetto d’oro» della pagina letteraria.
Senza indulgere quindi nelle solite lamentele che la Terza l’è morta e che la Cultura non sta molto bene, si può tranquillamente affermare che, come cambiano i tempi, così cambiano i giornali, non a caso definiti «specchio dei tempi». (Qui bisognerebbe aprire un discorso troppo lungo e complicato, che riguarda il generale declino dei giornali, e non solo le pagine culturali e la loro possibilità di incidere sulla realtà e non meramente di subirla... Ma essendo troppo lungo e complesso, lasciamolo per un’altra volta).
Noi crediamo che si possano mischiare i generi e tenere due registri: uno alto e uno più popolare. Si può parlare in modo coltissimo di un fumetto e in modo popolare di un classico della letteratura. Chi si può arrogare il diritto di giudicare quale sia il capolavoro, il libro del quale parliamo con la certezza che entrerà nella storia della letteratura? Cosa è letteratura si decide dopo, dice a ragione Gian Arturo Ferrari in risposta a chi accusa la Mondadori di non fare cultura. Ricordiamoci che Madame Bovary uscì come feuilleton, che Salgari e Verne hanno dovuto aspettare più di un secolo per essere sdoganati come letteratura. Che Simenon e Scerbanenco sono grandi a prescindere dal fatto che scrivono romanzi gialli. Certo il parere del critico letterario, se il suo giudizio è onesto, ha un valore. Ma abbiamo visto tante volte osannare libri che non hanno retto alla lettura del tempo.
Affermare che Dan Brown (o Baricco o i tanti altri autori che entreranno nell’oblio nei prossimi dieci anni) non è degno di essere trattato nella pagine culturali (le quali invece dovrebbero occuparsi solo di Landolfi, di Manganelli e Gadda), sarebbe come invitare le pagine degli Spettacoli a non occuparsi dei reality show perché prodotto televisivo demenziale e dedicarsi esclusivamente a Truffault, Visconti e Totò.
L’uno non esclude l’altro, tutto dipende dal come se ne parla. Rimpiangere i bei tempi andati, quando la Terza pagina era luogo di esercizio letterario di firme prestigiose non ha oggi molto senso. Sostenere questa tesi sarà forse un’eresia, ma se la Terza pagina come piacerebbe a Paccagnini è morta, bisogna prima capire se è stata uccisa da qualche spietato killer o se invece, come capita, è deceduta per morte naturale, per usura. Di Cervantes in giro non se ne vedono e se i giornali si occupano delle mezze calzette sarà anche perché questo è ciò che ci circonda.
Questo non significa che si debba parlare di ogni mezza calzetta che calca le scene letterarie. Certo che no. Ci sono molti editori, specialmente i piccoli, che fanno un ottimo lavoro di scouting. Paccagnini ha ragione quando afferma che in questo momento «l’editoria letteraria sembra davvero scommettere su di sé presentando qualche fenomeno di novità». Lain di Fazi, Alacran, Nottetempo, Cadmo, Marlin, Avagliano, Colorado noir, Stelle filanti, Cargo, Diabasis, Aliberti, Kowalski, Pendragon, Fanucci Newton&Compton, accanto alle collaudate Minimum fax, PeQuod, Ancora del Mediterraneo, e/o, Sironi: sono editori bravi che fanno un ottimo lavoro nella proposta di voci interessanti e promettenti. I giornalisti culturali più attenti lo sanno e li seguono con attenzione.
Ma ciò non impedisce di parlare anche dell’editoria commerciale, senza cadere nel tranello che a celebrare il valore di un libro sia il numero dei suoi lettori. E senza dimenticare che le pagine culturali sono sì il luogo della letteratura, ma vi possono trovare spazio anche altri argomenti interessanti.
Perché non raccontare della disputa tra darwinismo e creazionismo che si celebra nei tribunali americani? Perché non approfondire i temi della bioetica quando il Paese si appresta a votare un referendum sulla fecondazione assistita? Perché non si dovrebbe mettere in ridicolo il teatrino dei premi letterari narrando i retroscena delle vittorie preconfezionate? Perché non parlare del dissesto dell’Università, delle difficoltà che un Paese come l’Italia ha nel difendere il proprio patrimonio culturale, della condizione in cui versa la ricerca, delle biblioteche e degli archivi? Questi sono forse temi che non interessano i lettori delle pagine culturali? Senza bisogno di creare false polemiche o mettere la minigonna, anche qui la sfida sta nel come lo si fa.
E per concludere questa serie di considerazioni in libertà, che non hanno alcuna pretesa che non sia quella di aprire una riflessione, chiediamoci: se non ci sono più i critici titolari alla Emilio Cecchi, Paolo Milano e Geno Pampaloni che tutte le settimane davano un giudizio chiarissimo e definitivo su un romanzo.

Se non ci sono più i Montale, Quasimodo, Buzzati, Soldati, Emanuelli, Testori e Carlo Bo, Parise, Longhi, Brandi, Palazzeschi, Montale, Moravia, Comisso, Contini; se non escono più ottime novità di Parise, Bassani, Pasolini, Morante, Calvino, Landolfi, Manganelli è colpa dei giornalisti culturali? O più semplicemente, rubando il titolo a un libro di Arbasino che questo mondo lo osserva attentamente, viviamo in un paese di zombie?
O forse, ancora più semplicemente, non bisogna seguire l’esempio della poetessa premio Nobel della Letteratura Wislawa Szymborska, la quale incuriosita dal divario tra l’attenzione dedicata ai libri «nobili» destinati però a rimanere sugli scaffali delle librerie e il successo di vendite di manuali per la cura dei cani, dispense di giardinaggio, resoconti di viaggi, biografie, sunti storici, atlanti geografici e via dicendo, decise di parlare proprio di questi, confezionando per molti anni articoli bellissimi, raccolti da Adelphi in un volume (Letture facoltative, pagg. 291, euro 21) che chiunque abbia qualcosa a che fare con la cultura sui giornali, dovrebbe tenere sul comodino. E leggerne due pagine ogni sera. Così, come promemoria.

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