«Noi ebrei sotto i Qassam pronti a curare anche i feriti palestinesi» Nell’ospedale di Ashkelon, città israeliana bersaglio dei razzi, dove i medici non fanno discriminazioni davanti al dolore

nostro inviato a Ashkelon

«Ah, Bologna! È lì che ho studiato medicina. I sette anni più belli della mia vita... la cultura, l’arte, la gastronomia...». Questo sta dicendo il dottor Lobel, lieto di poter sfoggiare il suo italiano ancora rotondo, quando le sirene entrano in azione. Ron Lobel, 57 anni e vicedirettore dell’ospedale Barzilai di Ashkelon, tace un momento, tende l’orecchio, si carezza soprappensiero la barba che fu rossa e prende a raccontare delle sue ascendenze centroeuropee, dove la lingua usata da suo padre era l’yiddish, mentre mi fa cenno di seguirlo. Dal secondo al primo piano, una ventina di gradini. Lui col passo flemmatico e fatalista di chi ha deciso una volta per tutte che non vuol farsi rovinare la vita da quelli di Hamas. Chi scrive, e gli altri visitatori occasionali che sono con lui, colti invece da insoliti fremiti alle caviglie e una voglia di pedalare rapidi verso qualcosa che somigli a un rifugio. Il tempo di arrivare alla base della scala, ed ecco il botto. Preceduto, appunto, dai soliti quindici, venti secondi garantiti dal sofisticato sistema di rilevamento israeliano che riesce a scorgere per tempo l'oggetto volante. Botto non fortissimo epperò non piccolo, capace comunque di far tremare i vetri delle finestre e di arruffare il sistema nervoso di chi è costretto a vivere nella quotidiana salamoia della paura. Un figlio che è fuori a giocare a pallone; il marito che torna a casa in auto; un genitore anziano, magari a letto, incapace di spostarsi. Ogni volta pensi che possa toccare a te, a uno dei tuoi, e finisci per vivere respirando al minimo, o per affidarti a una kabbala benigna, o alla chimica dei tranquillanti.
Ashkelon, la città di Sansone e dei filistei, 12 chilometri dalla linea di confine con Gaza, bella e ridente come una Rimini fuori contesto, sembra una città senza vita. Chiusi gli uffici pubblici, le scuole, le fabbriche. La vita al tempo dei Qassam, e ora dei Grad, che volano fino a Beersheba, dove il terrore non si era mai affacciato, e ora ha il volto del ministro Tzipi Livni che si affaccia dal buco lasciato nella parete di una scuola del capoluogo del Neghev, è fatta così. Ashdod, Sderot, Ashkelon: un milione di israeliani sotto schiaffo che ora chiedono con forza di essere liberati dall’incubo Hamas.
Bei paradossi, però, esprime questa guerra a bassa intensità che va avanti da anni. «Noi siamo l'unica, grande struttura ospedaliera vicino Gaza - spiega il dottor Ron Lobel -. In tempi normali, vengono a ricoverarsi da noi tra i 10 e i 20 palestinesi al giorno. Qui non si discrimina. Israeliani, palestinesi: nessuno chiede nulla a nessuno. Stai male? Se bussi, ti verrà aperto. Malati bisognosi di cure particolari, spesso. Ma anche i feriti degli scontri tra fazioni». Per esempio? «Per esempio certi militanti dell’Olp, quando rimediano qualche pallottola alle ginocchia alle 2 del mattino dai loro rivali di Hamas. Ecco, loro vengono qui...», racconta sorridendo il dottor Lobel.
Cinquecento letti, 1700 impiegati, 250 medici, 700 infermieri. Se scatterà l’offensiva di terra, l'ospedale di Barzilai sarà in prima linea. Lobel lo sa, e si è già preparato. «Ho mandato a casa o trasferito 200 pazienti. Se ci sarà una battaglia di terra avremo bisogno del maggior numero di letti possibile».
Il razzo, quello che ha fatto tremare i vetri delle finestre dell'ospedale, è caduto nei giardinetti di Neot Shkelom. Polizia, un nastro bianco e rosso che delimita l’area, una buca nel terreno grande come il fondo di una poltrona, il becco di una ruspa gialla che fruga nella terra smossa per cercare i frammenti della bomba. Adva, 22 anni, studentessa, è venuta a curiosare. Dice che lei vuole andarsene a Gerusalemme. «I miei genitori ormai sono rassegnati - confida -. Ma io non voglio fare l’ostaggio a vita». Adam Lipert, 21 anni, studente di Scienze politiche a Tel Aviv. «Sono tornato a casa per le vacanze, ma non vedo l'ora di rientrare al campus. Questa roulette russa va avanti da troppo tempo».
Adam è uno dei tanti ragazzi che si era ripromesso di salutare l’anno nuovo al Fishenson's Bar. «Ma non era aria», dice, mentre le sirene si rimettono in moto. Ashkelon, la notte di Capodanno, era vuota come la pista di un aeroporto. Cancellati i fuochi artificiali in programma al “Todra dance bar”, chiuso il Forum, cinque persone in tutto allo “Scubar”. Stessa aria quaresimale ad Ashdod. L’unico contento, in questi giorni, è Yinon Tubi, un ragazzino di 10 anni di Sderot che si è guadagnato la prima pagina del quotidiano Haaretz come il più grande collezionista su piazza di frammenti di razzi palestinesi. Appena cessa l’allarme, Yinon piomba in bici sul luogo dell’atterraggio dei Qassam. Talvolta ci arriva prima dei poliziotti e si frega un pezzo di lamiera contorta e abbruciacchiata. I suoi genitori, papà Shilav e mamma Orit, ebrei ortodossi, guardano disarmati a questo ragazzino con l’aria intelligente e i lunghi boccoli che gli scendono ai lati delle orecchie.

All’inizio erano preoccupati e l'hanno sgridato di brutto. Poi si sono rassegnati. «Che male c’è - dice il piccolo Yinon -. Sono souvenir che un giorno mostrerò ai miei figli, ai miei nipoti sperando di potergli dire: ecco, vedete come si viveva quando ero piccolo io?».

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