Paolo Brusorio
nostro inviato a Bologna
La rifondazione azzurra parte da quellinverno argentino del 1978. In panchina cè Enzo Bearzot. Con Fulvio Bernardini prima e da solo poi, ha caricato la sua pipa e tolto la muffa alla nazionale. In Argentina cè la dittatura, i baffoni del generale Videla invadono le tribune del Monumental di Buenos Aires. I sudamericani arrivano in finale non senza trucco, quel 6-0 al Perù puzza ancora di bruciato. Vincerà il mondiale lArgentina, Olanda ancora battuta: 3-1 ai supplementari. Arbitro Gonella.
Gli azzurri lasciano lItalia tra i fischi, poi Bearzot pesca due angeli dalla faccia pulita: Antonio Cabrini e Paolo Rossi. Finiscono quarti, ma sono le fondamenta del mundial 82. Squadra bloccata, tranne che nel numero dieci: se lo giocano Antognoni e Zaccarelli. Finisce più o meno pari, ma Zac scaccia gli incubi contro la Francia. E racconta.
Otto della Juventus, sei del Torino in quella nazionale. Come facevate a convivere?
«Noi del Toro tendevamo a stare insieme, a tavola i due blocchi erano ben distanti. In mezzo cerano Antognoni e Bellugi a dividerci».
Tutti insieme appassionatamente allHindu club?
«Cera un campo da golf, e 3-4 da calcio. Lo stesso complesso ospitava noi e la Francia. Loro al quarto piano, noi al secondo. Così quando finivamo lallenamento andavamo a vedere il loro e viceversa. E quante volte ci siamo trovati a passeggiare insieme con Platini nel parco dellHotel...».
Esordio proprio con la Francia: 2 giugno, trentasette secondi e Lacombe fa gol. Poi pareggia Rossi e segna proprio lei nel secondo tempo. Roba da brividi?
«Bearzot non si era ancora seduto in panchina alla rete della Francia e non ha fatto una piega. Noi giocatori avevamo già le valigie in mano. Lui no».
Che cosa ricorda del suo gol?
«Che fu un bel gol. E che una volta tornato in Italia i tifosi del Toro mi attaccarono perché avevo aiutato il gruppo della Juve ad andare avanti».
Passiamo oltre. Qual era la filosofia di Bearzot?
«Giochiamo noi la palla che siamo bravi. Il calcio stava cambiando e Bearzot laveva capito. Zoff era il suo punto di riferimento».
Con lUngheria è una passeggiata (3-1 Rossi, Bettega e Benetti). Già qualificati, ci aspettano gli argentini, anche loro già al turno successivo. Che cosa succede alla vigilia?
«I giornalisti ci dicono che giochiamo noi del Toro. Graziani, Pulici, Claudio Sala ed io. Bearzot vuol fare riposare i titolari. Ma alla vigilia scopriamo che giocano i soliti. Graziani è furibondo, aveva perso il posto a favore di Rossi».
E che cosa successe?
«Fu fondamentale Gigi Peronace, il team manager della nazionale si direbbe oggi. Chiedemmo spiegazioni a lui, si limitò a dirci che Bearzot aveva cambiato idea, ma riportò la calma».
Il gol di Bettega contro lArgentina è lì per le scuole calcio. Ci riporti a quella sera.
«Ci fu un silenzio pazzesco allo stadio Monumental. Anche i nostri connazionali rimasero zitti. Durò un secondo, ma sembrò uneternità. Poi per Buenos Aires scoppiò la festa».
Pari stretto con la Germania. 1-0 allAustria grazie a Rossi, la peggior differenza reti ci obbliga a battere lOlanda. Autorete di Brandts, ma due proiettili impallinano Zoff. Che diventa il colpevole della sconfitta.
«Eravamo convinti di batterli. Ma a un certo punto loro misero in campo la prepotenza fisica. Larbitro israeliano Klein lasciò passare tutto e quando vidi per terra Benetti, uno che per abbatterlo ci voleva una ruspa, capii che qualcosa non quadrava. Non a caso Klein 4 anni dopo permise quella marcatura di Gentile su Zico. Forse doveva farsi perdonare».
Come fu il dopo partita di Zoff?
«La stampa aveva individuato in lui il colpevole. Era un dagli al mostro. Rivedendo il secondo gol olandese con Bearzot, Dino disse di non averlo visto partire».
Quanto fruttò il quarto posto?
«Circa 20 milioni di euro. 30 se avessimo vinto. Così aveva pattuito la commissione formata da Zoff, Causio, Claudio Sala e Bellugi».
Chi fu il miglior giocatore di quel mondiale?
«Osvaldo Ardiles. Centrocampista completo».
Era lArgentina della dittatura, la gente scompariva.
«Sì, gli stessi argentini avevano paura a parlarne.
(7. Continua)
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