Ma per noi italiani il detective con la pipa si chiama Gino Cervi

Tutti i luoghi cari al Commissario: le bettole affollate, le paludi della Vandea, i canali delle zone rurali, i negozi di rue des Dames. E persino quella Costa Azzurra che mandò in bambola personaggio e autore

Un vecchio golf, di quelli che si usano soltanto in casa perché mancano due bottoni e la zona dei gomiti è lisa come carta velina. Maglietta bianca «da notte». Pantaloni del pigiama. Calze pesanti. Ciabatte. Un bicchiere di vino a portata di mano. Sigaro spento in bocca (giusto per sentire il sapore del tabacco senza appestare il salotto) o, meglio ancora, pipa capiente e ben carica, che possa resistere fino al termine dell’episodio. Episodio di che cosa? Come di che cosa? Di «un Maigret» no?
Il maigretofilo agisce prevalentemente d’inverno. Fuori, in strada, nebbia, pioggia, neve, gelo. Dentro, cioè davanti alla tv, spaparanzato sul divano, lui si pasce nell’intimità di un fumoso bistrò, o di un ufficio deserto dove Lucas poltrisce in attesa del «capo», o di una portineria dove il Nostro, immancabilmente, alza il coperchio della pietanza sul fuoco e per un attimo s’inebria di quell’afrore che lo proietta a casa, al 132 di boulevard Richard Lenoir, dall’adorabile «signora Maigret», alias Andreina «Louise» Pagnani. Perché il maigretofilo, l’avrete capito, ha sviluppato una dipendenza quasi fisica dall’insuperabile Gino Cervi nei panni del Commissario. E da tutto il resto di quella compagnia simenoniana messa impeccabilmente in scena da Mario Landi per una Rai che, negli anni Sessanta e Settanta, era l’unico, grande teatro domestico degli italiani.
Quelle sedici inchieste che il maigretofilo ha già assaporato sei, sette, otto volte in vita sua (e che medita, in questo freddo inverno, di ripassare per la nona volta), in fondo, che cosa sono? Sono uno dei rari casi in cui la letteratura non esce con le ossa rotte dalla copula, secondo i puristi sempre contro-natura, con l’elettrodomestico tv. Al punto che uno arriva a formulare in modo diverso la vecchia domanda. Invece di «è nato prima l’uovo o la gallina?», si chiede: «è nato prima il Maigret di Cervi o quello di Simenon?». Perché l’immaginario collettivo non è una sostanza volatile e facile da contraffare tipo il comune senso del pudore. Quell’immaginario, proprio perché collettivo, cioè diffuso, trasversale e costante nel tempo, è reale, palpabile.


E quando il maigretofilo pantofolaio, che solitamente è anche un buon lettore, lascia da parte vhs e dvd e apre un libro di Maigret, già sente in bocca sapore di trinciato forte e di calvados, ode i rumori del traffico a Pigalle, odora a pieni polmoni l’aria frizzante degli Champs Élysées in maggio, tocca la giacca stazzonata di una vittima senza nome. E vede un burbero signore di nome Gino Cervi sorridere come sorrideva Georges Simenon quando catturava un altro «caso» da consegnare al suo amico Jules Maigret.

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