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"Noi pazzi, nati sulle macerie dell'Unione Sovietica"

Per poche ore è stato candidato con Beppe Sala a Milano. Ora dice: "La sinistra? Intollerante. Non mi perdona quello che ho detto sull'Ucraina"

"Noi pazzi, nati sulle macerie dell'Unione Sovietica"

Non è facile infilare in una casella Nicolai Linin. Se ne è accorta qualche settimana fa la sinistra milanese: «Europa Verde», la lista ecologista che appoggia il sindaco Giuseppe Sala, ha annunciato di volerlo candidare al Consiglio comunale ed è subito scoppiato il putiferio. Linin è stato accusato di essere «di destra», vicino a CasaPound, di avere idee incompatibili con la maggioranza che governa la città. Dopo qualche ora lo stesso Linin ha preferito farsi da parte: «Sono troppo anticonformista».

Arrivato in Italia una quindicina d'anni fa, Linin (nome all'anagrafe Nikolaj Verbickij) è diventato famoso nel 2009 per il suo primo libro, Educazione Siberiana, grande successo di vendite e una versione cinematografica con la regia di Gabriele Salvatores. Anche in quel caso non sono mancate le polemiche, quando qualche giornalista ha fatto delle ricerche e scoperto che le vicende trattate (la formazione di un gruppo di giovani criminali) non erano autobiografiche, come dichiarato, ma frutto di elaborazione letteraria. Finzione o realtà il libro continua a vendere e Linin continua a scrivere (ultimo libro un interessante saggio su Putin). Nella periferia milanese gestisce un studio per tatuaggi (lui stesso è tatuato un po' dappertutto) e lo studio è anche il laboratorio dove dipinge icone. Se gli si chiede conto della biografia complicata e romanzesca sorride e risponde in un italiano da manuale: «Sono semplicemente un uomo cresciuto sulle macerie dell'Unione sovietica. Uno dei pazzi usciti dalla sua distruzione. In Occidente si fa fatica a capire chi siamo».

Ce lo spieghi.

«Bisogna pensare a cosa significa essere russi, nati in un enclave all'interno della Moldavia e lì avere vissuto una guerra. Nel 1992, con il crollo dell'Unione sovietica, i nazionalisti moldavi ci hanno detto: andatevene, tornate in Russia. Ma là nessuno ci voleva perché eravamo via da generazioni. La mia bisnonna era scappata dalla Siberia, dai comunisti, con il marito fucilato davanti ai suoi occhi perché faceva parte di una banda criminale. Il risultato è che siamo stranieri ovunque. Non siamo etnicamente moldavi, non siamo di casa in Russia. Poi sono venuto in Italia e anche qui sono straniero. Siamo abituati a essere persone di confine. Io di passaporti ne ho tre».

Tre? Come mai?

«Passaporto italiano, moldavo e transnistriano. Sono nato in un Paese che non c'è più e che le diverse autorità nazionali interpretano in modo differente. Per i moldavi la mia città, Bender, è in Moldavia. Ma eravamo, appunto, in un'enclave russa e il 97% dei cittadini, in un referendum libero, ha votato per rimanere in Unione Sovietica. Così siamo stati attaccati, c'è stata la guerra, Bender non è mai caduta in mano ai moldavi, ed è nata la Transnistria, che sul passaporto stampa ancora orgogliosamente falce e martello. Il passaporto non serve a nulla perché nessun Paese lo riconosce, ma lo faccio vedere a qualche amico e lo uso quando sono là».

La Transistria è in uno strano limbo. Per la comunità internazionale appartiene alla Moldavia, ma di fatto è indipendente e protetta dal grande fratello russo.

«Io ero ragazzino, ma ricordo combattimenti terribili. Per due mesi la mia città fu difesa dalla gente, come mio padre che aveva delle armi in casa: si tagliavano i tettucci delle macchine e si sparava a blindati e carri armati. Era guerra partigiana o, come si direbbe oggi, guerriglia urbana. Per difenderci dai moldavi sono arrivati aiuti da tutta la Russia. In casa nostra dormivano dei cosacchi dell'Altai, tutti comunisti convinti, ex combattenti della guerra in Afghanistan. Poi è arrivato l'esercito russo: la XIV armata del generale Lebed. Disarmarono le forze di resistenza locali e siamo diventati protettorato di Mosca, con un enorme contingente militare e i più grandi magazzini di armi in Europa».

Lei in Italia come è arrivato?

«I russi disarmarono le milizie locali. Mio padre era uno dei capi, era diventato scomodo per il nuovo potere, legato ai servizi di sicurezza e alla polizia che volevano occuparsi di gestire i traffici del Paese, sopratutto armi vendute in tutto il mondo. A mio padre fecero saltare in aria l'automobile, poi ci spararono quando in macchina c'ero anch'io. Decise di partire per la Grecia e mia mamma venne in Italia. La tipica donna dell'Est che arriva in cerca di miglior destino. Io rimasi con i nonni. Avevo 14 anni. Poi a 18 mi sono arruolato nell'esercito russo. Finiti i due anni previsti non ho voluto continuare e dopo un po' ho realizzato che ne erano passati 10 da quando avevo visto per l'ultima volta mia madre. Così sono arrivato a Torino».

In Italia ha scoperto la vocazione letteraria o c'era già prima?

«No, prima non c'era. Merito di amici come il regista Franco Collimato e di Giorgio Cattaneo, scrittore e drammaturgo. Quest'ultimo aveva dei contatti con Einaudi che mi ha messo sotto contratto».

Per «Educazione Siberiana» è stato accusato di aver presentato la vicenda come una storia personale.

«Ma è la mia storia personale. Voglio dire: quello è stato il mio primo libro, la mia prima esperienza letteraria. Non ero ancora del tutto consapevole del fatto che sono uno scrittore e all'inizio è stato complicato collocare il romanzo. Per me era la mia storia, ho messo tanto della mia memoria, della memoria dei miei genitori e dei nonni, delle persone che ho conosciuto».

Non è stata una forma di promozione?

«Della gestione del romanzo non mi sono mai occupato. Mi hanno rimproverato il fatto che parlo del popolo degli urka, che etnologicamente non esiste. Ma io parlo di una comunità criminale che così si definiva. Come loro raccontavano le storie così le ho raccontate io. Non sarà un popolo ma una cultura, un mondo, un ambiente come, che so, la criminalità calabrese. Legato ai traffici, al contrabbando, con le sue canzoni, le sue tradizioni, i suoi riti. La sua visione del cristianesimo. E chi vive nella comunità di sé dice: noi siamo un popolo».

E la vicenda della candidatura come è andata?

«Io sono molto attento alle questioni ecologiche, alla natura. Due anni fa in Siberia è scoppiato il primo grande incendio e abbiamo perso 5 milioni di ettari di foresta. Per quest'anno le previsioni parlano di 8 milioni. Una catastrofe: stiamo vivendo le conseguenze del comportamento sbagliato dell'uomo. Ho un canale Instagram che va molto bene, con tanti iscritti, e poi una pagina su Facebook anch'essa seguita. Parlo molto di questi temi ed Europa Verde mi ha proposto di candidarmi. Ho detto: perché no, nell'agenda di qualsiasi forza politica la questione ambientale deve essere al primo posto. Poi è successo quel che è successo».

Di cosa l'hanno accusata?

«Di essere una persona libera dal punto di vista intellettuale».

Più precisamente di una sua vicinanza a CasaPound.

«Che cosa vuol dire? Tutto perché una volta sono andato da loro a presentare il libro. Un esponente del Pd di cui non ricordo nemmeno il nome mi ha dato del fascista, ha parlato di miei rapporti con Aleksandr Dugin, filosofo considerato di destra. Non l'ho mai conosciuto né visto. Mi piacerebbe pure incontrarlo. Sto male per la sinistra se pensa che tu debba accettare e condividere subito le idee di uno con cui semplicemente interagisci. A sinistra c'è un'area per la quale chi non segue una determinata linea di pensiero va eliminato. E la regola si applica con zelo quasi religioso».

Alla fine, candidatura addio...

«Cechov diceva che il medico e il letterato sono simili. Entrambi portano sollievo agli uomini. E se sei uno scrittore non puoi distinguere. Hai condiviso le tue idee sotto forma di libro che può essere letto a destra, a sinistra, da un anarchico, uno che sta in carcere. Per me sono dei lettori e sento il dovere di confrontarmi con loro, se lo vogliono. Ogni settimana mi arrivano lettere dal carcere e io rispondo a chi mi scrive. In questo momento sono in corrispondenza con uno dei due ragazzi americani che qualche tempo fa hanno ucciso un carabiniere a Roma. Sua madre mi ha chiamato e mi ha chiesto di mettermi in contatto con il figlio perché aveva letto il mio libro e voleva parlarmi. Cosa devo dire? Con te non parlo perché non voglio che una certa sinistra mi definisca fascista o assassino o amico di assassini? Io porto il mio pensiero a tutti. Anche se in realtà so perché mi odiano».

Vale a dire?

«Ho criticato la sinistra per l'appoggio che ha dato al colpo di stato appoggiato anche dai neonazisti, quelli sì, ucraini. In Italia ho criticato Laura Boldrini perché ha invitato in Parlamento Andrij Parubij, fondatore del partito social-nazionale, il capo dell'organizzazione neonazista più grossa e potente di tutto il territorio post-sovietico ed europeo, poi diventato presidente del Parlamento ucraino. Ricordo perfino un lancio di agenzia Ansa in cui la Boldrini dichiarava di essere in sintonia con lui. Assurdo».

Qui si sente l'eco della sua esperienza personale. Che cosa è stata per lei, di lingua e cultura russa, la rivoluzione ucraina?

«È stata di sicuro una guerra. In quello si è trasformata. Con la sponsorizzazione dei poteri occidentali: lo stesso Soros ha dichiarato apertamente che è stato lui a intervenire, pagando, in diverse fasi di quanto successo. Ed è lo stesso Soros che alimentava da noi il nazionalismo moldavo sponsorizzando le simpatiche associazioni dei cosiddetti amici della storia. Organizzavano serate per metterti in testa che non eri altro che un invasore, un male da estirpare».

Soros è un nome di quelli spesi anche quando non c'entrano. Questo mi parla del trauma di cui raccontava all'inizio...

«Nessuno nega che in Ucraina ci abbia messo le mani anche la Russia. Ma i russi sono stati meno attivi rispetto agli occidentali. E in ogni caso l'ultima cosa che ai grandi interessa è lo stato del popolo ucraino. Come nei luoghi dove sono nato io. La gente comune viene trasformata in moneta di scambio».

A proposito di Russia: da quando è uscito il suo libro su Putin i paraventi sono caduti. Il regime non nasconde la sua natura illiberale.

«Penso che molte congiunture che abbiamo visto svilupparsi in campo sociale e politico siano dovute alla reazione del Paese e del governo alle dinamiche internazionali. Non sono Putin e la Russia i leader del gioco globale. Sappiamo chi sono i numeri uno nel campo dell'economia e dello sviluppo. Lo stesso Putin lo disse di fronte al presidente cinese che voleva la collaborazione di Mosca per i grandi progetti di Pechino. Un proverbio cinese, disse Putin, racconta che quando due tigri si scontrano nella valle la scimmia intelligente le guarda dall'alto dell'albero. Noi vogliamo essere quella scimmia, concluse. Per potere reagire a livello internazionale il potere russo è obbligato a mantenere un certo regime sociale, economico e politico interno».

Cosa intende?

«Intendo dire che per questioni storiche in Russia non sono mai avvenute riforme di un certo tipo e che nella mentalità russa è molto difficile sviluppare un rapporto moderno ed evoluto con il potere. Un esempio è la corruzione. Mi chiedono: la Russia è corrotta? Certo, la corruzione è incredibile. Ma da dove arriva? Dal fatto che la nostra società a livello culturale la plasma e la accetta. C'è una piramide della corruzione che parte dal basso».

Sta dicendo che la Russia non ce la fa a essere democratica e moderna? Che in Russia la libertà crea vuoto e disordini tali da portare alla disgregazione? Come nell'era dei «Torbidi» prima dei Romanov e negli anni '90 del '900? È il Leviatano di Hobbes.

«La verità è che in Russia non siamo mai usciti dalla dinamica della servitù della gleba.

Viene da piangere a pensarlo, ma è così».

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