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«Noi, salvati dalle acque dagli angeli delle palafitte»

A Novos Alagados, in Brasile, 135mila persone abitano da sempre in baracche sospese sul mare. Prima del miracolo di un gruppo di italiani

Stefano Zurlo

nostro inviato a Bahia

La felicità a Novos Alagados è calpestare un pavimento. Vero. Ventidue metri quadrati, piastrellati di bianco. Una casetta piccola piccola, ma dignitosissima: i fiori all’ingresso appoggiati su un tavolinetto, i fornelli, il bagno, gli interruttori della luce e un letto matrimoniale con la testiera. Zè Raimundo, un omone alto e malinconico, apre delicatamente la porta dell’unica camera e saluta la moglie che sta allattando Gabriel, quindici giorni e la fortuna di essere nato all’asciutto: «Quando abitavamo sulle palafitte, la marea puntualmente saliva e infradiciava le pentole, i vestiti, le nostre cose. Una volta, per aver trascurato i lavori di manutenzione dei pali di sostegno, la casa si è piegata su un fianco. Come una barca». E con la mano mima il gesto, quasi surreale. «Poi piatti, vestiti e mobili sono finiti nella laguna. L’anno scorso - e Zè Raimundo si incupisce - sulle palafitte abbiamo perso mio figlio maggiore, Gabriel», stesso nome del fratellino, sei anni: «È sparito una mattina mentre era da qualche parte a giocare, l’abbiamo ritrovato quando il mare è sceso, a sera. Annegato». E mostra la foto tessera in bianco e nero di un bambino che non ha avuto il tempo per sbarcare sulla terraferma. Ed è stato divorato da quel drago silenzioso.
A Novos Alagados la povertà è un pavimento sconnesso, fatto con assi di legno sotto cui s’intravede l’acqua limacciosa della laguna. L’occhio del visitatore corre angosciato alla ricerca di un punto rassicurante, ma a parte il volto sorridente di Marianna, la capofamiglia, non trova nulla su cui soffermarsi. I muri sono un miscuglio male assemblato di lamiera, cartone e legno, il tetto è lo specchio del pavimento, i mobili si riducono a mensole che stanno in equilibrio come ubriachi e sono chiuse da tendine logore. Sparpagliati un letto, il water, un catino per il bagno; in fondo alla casa, composta da tre spazi in fila come vagoni di un treno, i fornelli alimentati da una bombola a gpl. C’è anche una finestra sulla civiltà, almeno secondo i nostri parametri: la tv e e lo stereo, immancabile colonna sonora della miseria brasiliana. I fili, pericolosamente scoperti, sfiorano l’acqua e spariscono dietro l’abitazione del vicino.
«Qui sto bene», ripete tranquilla Marianna e non c’è verso di mettere in crisi le sue certezze. S’immalinconisce solo davanti alla più innocente e cattiva delle domande: dove si ritrova la famiglia, la mamma e i due figli, per mangiare? «Stiamo in piedi - è la risposta -, ciascuno prende il suo piatto e consuma il pasto. In casa non abbiamo un tavolo».
Dalla casa di Marianna e a quella di Zè Raimundo ci sono, in linea d’aria, poche centinaia di metri, ma il salto è vertiginoso: come passare dal sussidiario di prima media, e dalla preistoria, alle nostre periferie. Un balzo che stordisce e ferisce. Le casette a schiera, realizzate negli ultimi dieci anni e i ponticelli traballanti sull’acqua. Sorpresa, questo passaggio cha accorcia un tragitto di migliaia di anni è gestito da una organizzazione non governativa italiana: l’Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale). «Siamo arrivati qua nel 1992 - racconta Fabrizio Pellicelli, direttore dell’Avsi di Bahia - per un progetto di riduzione della povertà urbana nella Comunità di Novos Alagados. Oggi l’iniziativa abbraccia tutta la baia di Salvador Bahia: una superficie di 4 chilometri quadrati, oltre 40mila famiglie stipate in una favela di 135mila abitanti».
La favela forse più degradata e imbarazzante fra le 357 che macchiano come una malattia infettiva il tessuto di Bahia, una città da due milioni e mezzo di abitanti. L’idea è ambiziosissima: spostare le famiglie dall’acqua alla terra, dalle baracche insicure agli appartamenti in muratura. E garantire loro il corredo minimo che ogni civiltà si dà: l’asilo, il doposcuola, corsi di formazione, cooperative, un presidio sanitario. Presto, una chiesa. Insomma, costruire la cornice di una convivenza accettabile, con l’aiuto del personale locale. E aspettare che il quadro di fondo piano piano cambi: «Dopo quattordici anni cominciamo a raccogliere i frutti - spiega Pellicelli - sulle palafitte ci sono ancora malattie come la rabbia, la lebbra, la leptospirosi, la tubercolosi. Sulla terraferma la situazione è molto migliore e anche gli indicatori della violenza scendono a picco». Sull’acqua gli uomini lottano per la sopravvivenza peggio che nei fumetti di Tex e il numero degli omicidi è terrificante: sessanta-settanta ogni centomila abitanti, contro, per esempio, i tre-quattro delle nostre realtà più devastate, come Napoli.
Il lavoro dell’Avsi ha trovato il finanziamento - 5,7 milioni di dollari - del governo italiano, la benedizione della Banca mondiale, la partnership dello Stato di Bahia ed è stato premiato da Cities Alliance, l’agenzia per l’urbanizzazione delle Nazioni Unite. Ma le medaglie al merito, quelle che si portano al collo con orgoglio, le dannno solo gli abitanti di Novos Alagados. Come Isabella, una single di 43 anni, che ha appena ricevuto i suoi 22 metri quadrati regolamentari, più un cortiletto di otto. Isabella tocca con le dita l’interruttore della luce, quasi fosse un gioiello. E si affaccia raggiante sulla main street del quartiere a salutare due operai che stanno ultimando un’altra palazzina.
O come Luciana, una trentatreenne magrolina che ha abitato per dodici anni in una palafitta e tiene in braccio Mario, 4 anni. «Ho un solo sofà - spiega - perché l’altro me l’ha mangiato il mare. Quando saliva la marea cercavo di mettere in salvo sul tavolo tutto quello che potevo, ma due sofà non ci stavano». Mario qualche mese fa passava ore e ore da solo, sulle passerelle di legno. Ora frequenta l’asilo che il governatore dello Stato di Bahia ha voluto intitolare alla memoria di don Giussani. Luciana, pudica, dice solo due parole: «È guarito». Fino a settembre, al trasloco e all’iscrizione alla scuola materna, Mario aveva la pancia piena di vermi. Ora tiene in mano la matita e disegna. E un nutrizionista controlla la sua alimentazione e conta le calorie che gli servono per vivere. Mario studierà, un privilegio a queste latitudini. E forse avrà un destino diverso da quello dei figli di Marianna, che non hanno un tavolo dove sedersi a mangiare il solito riso e i soliti fagioli. E di Gabriel, che è scivolato in bocca al drago perché nessuno poteva occuparsi di lui.

E perché la casa era un’infelice scommessa sul mare.

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