Abbiamo smesso di sognare, dice la gente. Non siamo in grado di accettare la realtà, dice la stessa gente. Due cose opposte, dice la gente, qual è vera tra le due? Ambedue. Come succede ai bambini, abbiamo scambiato il giorno con la notte. Provo su strada la filosofia, la porto in mezzo alla gente. So che sui giornali non si usa, ma io ci provo. Trovo conferma dei due modi di dire. La gente ha paura della vita, ha paura della realtà. Ha paura della violenza, ha paura dello straniero, ha paura delle malattie, ha paure dell’inquinamento, ha paura delle discariche e delle antenne. E ha paura di far figli, di uscire la sera tardi, di perdere il tenore di vita, ha paura del futuro ma anche del passato. E allora si rende schiava delle illusioni, che cerca in video, in fumo, nelle trasgressioni, in vacanza, nei carrelli della spesa. Non è una novità aggrapparsi alle illusioni, cambiano gli oggetti ma non i soggetti. In passato, un passato anche recente, le illusioni furono le utopie rivoluzionarie, le ideologie che promettevano paradisi in terra e società perfette. Le illusioni degli uni erano le paure degli altri, il terrorismo, la violenza, gli anni di piombo. C’era chi bruciava nel fuoco i sogni dopo aver incendiato la realtà e chi faceva il contrario. Ma i disagi, la violenza, le paure del presente sono passate dalla sfera pubblica e storica alla sfera intima e privata, ma rivelano la stessa cosa: abbiamo scambiato il sogno con la veglia. Quando dovremmo vivere alla luce del sole la realtà quotidiana, fare i conti con ciò che siamo davvero, con il mondo concreto che ci circonda, con la nostra vita, i suoi limiti e le sue imperfezioni, ci rifugiamo nei desideri, inseguiamo chimere, viviamo di universi fittizi, mondi perfetti, società inesistenti, fughe nella realtà virtuale; incapaci di vivere, ci abbandoniamo ai sogni, compreso il sogno della merce. E quando invece dovremmo sognare, lasciare il campo alla libera immaginazione, all'incanto o all'irruzione del mito, allora ci barrichiamo nelle ferree leggi della ragione, nella contabilità, nella tecnica e nei bisogni materiali. Così l'amore è ridotto all'atto sessuale, la religione è ridotta a proiezione nei cieli dei nostri bisogni e delle nostre paure, l'arte è ridotta alle condizioni economiche e materiali, le idee ai rapporti di produzione, la cultura all'egemonia. In più ci snaturiamo quando dovremmo vivere la natura e ci aggrappiamo alla natura quando dovremmo liberare i sogni soprannaturali. Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all'astrologia: si veda a tal proposito il saggio di Theodor Adorno, Stelle su misura, ristampato in questi giorni da Einaudi (pp.134, E11.50) in cui il filosofo di Francoforte analizza questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne.
Questa inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel '68 una formula di successo: l'immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l'uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, ribaltando così il rapporto con il cielo e con la terra. Se ci fate caso, i malesseri del presente - come i dolorosi furori del passato - hanno quella stessa matrice: sogniamo quando dovremmo vivere, viviamo quando dovremmo sognare. Dormienti di giorno, insonni di notte, apriamo gli occhi quando è buio, gli chiudiamo quando c'è il sole. Pesanti nella leggerezza e leggeri nella gravità.
Passo dalla realtà alla letteratura, senza citarvi testi di filosofia o romanzi dove sarebbe facile pescare quel che dico; ve ne cito solo due agli antipodi. Uno è di un ex presidente della repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, Non è questa l'Italia che sognavo, un diario delle illusioni perdute nella repubblica italiana, il bilancio di una delusione. L'altro, all'opposto, è di un medico dell'anima, Ethan Watters, e si intitola: Pazzi come noi. Depressione, stress, anoressia: malattie occidentali da esportazione (B.Mondadori, pp.204, E.22). Watters racconta che succede quando si perdono i sogni di notte e la realtà di giorno. Non dice così, non voglio affibbiargli un mio pensiero; ma quella mi pare la chiave più giusta per spiegare la malattia occidentale che egli descrive. Vogliamo pestare il cielo con i piedi e camminare con la testa. Così i nostri dei sono pedestri, all'altezza delle nostre scarpe, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell'immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta che Paul Celàn, prima di suicidarsi chiamava psicocrazia. Gli dei caduti in terra si chiamano malattie. L'immaginazione al potere ci ha resi schiavi, non liberi; alienati, non autentici. Viviamo bene solo in stato di sospensione e di incoscienza, da automi e fruitori dell'attimo. Quando viviamo male, i sogni si fanno incubi e la realtà maledizione. Così la vita diventa una confortevole patologia.
La terapia è semplice a dirsi, difficile a realizzarsi: restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinare il duplice bisogno di sogni e di realtà che ci rende uomini, collocandoli però nel loro giusto tempo e al loro giusto posto. Facile a declamarla, provate sul serio a realizzarla. E' quasi impossibile, ma a quel quasi conviene dedicare la vita.
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