Non ci sentiamo protetti neanche dentro casa

Egregio dottor Granzotto, cosa dobbiamo intendere per sicurezza dei cittadini? La cronaca della mia città segnala un fatto singolare: una donna di 60 anni, regolare assegnataria di un alloggio popolare, è costretta a una lunga degenza ospedaliera. Durante la forzata assenza dalla sua abitazione succede il misfatto. Qualcuno forza la porta d’ingresso della sua abitazione e, dopo aver messo in strada tutto il mobilio, fa entrare in casa una ragazza madre di 26 anni con un bambino di 18 mesi. All’arrivo della polizia, chiamata dai vicini, gli agenti non hanno potuto fare altro che constatare quanto avvenuto, non essendo riusciti a convincere la donna a desistere dalla occupazione abusiva. La donna espropriata, al ritorno dall’ospedale, è rimasta senza casa. La cosa ha dell’incredibile ma non sembra un caso isolato. È una guerra tra poveri, ma la legge dove sta? Se questi sono gli episodi cui dobbiamo assistere ha ancora senso parlare di sicurezza dei cittadini? Gli italiani non sono sicuri nemmeno in casa?


Ecco quello che non capiscono o fanno finta di non capire nel Palazzo, caro Di Giorgio. La sempre più diffusa percezione di insicurezza che attanaglia i cittadini non è procurata dall’incremento della criminalità (e non è vero quanto si sostiene, e cioè che grazie a Prodi&Amato è in calo: saranno anche diminuiti gli omicidi, ma il resto, specie quella microcriminalità che per chi ne resta vittima è «macro», molto «macro», è in costante aumento). Ha origine nel senso di abbandono, abbandono da parte dello Stato. Della presenza dello Stato, della protezione dello Stato. Quando a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario il Procuratore generale della Cassazione è costretto ad ammettere che l’80 per cento degli illeciti resta impunito, che 97 ladri su cento la fanno franca - detto in altri termini, che quasi due milioni di furti rimangono a opera di ignoti - che 88 rapinatori su cento si godono indisturbati il frutto delle loro malefatte e che dunque, essendo molti reati in pratica depenalizzati, il crimine non è più una attività a rischio, come non può acutizzarsi il generale senso di insicurezza? Quando si legano, con i lacci del politicamente corretto o con quelli, ben più saldi, della demagogia progressista, le mani alle forze dell’ordine, spudoratamente messe sotto accusa se reagiscono con la forza alla forza dei criminali, perché ci si dovrebbe sentire sicuri? Ma ricorda, caro Di Giorgio, l’inviperita reazione alla proposta di istituire i «poliziotti di quartiere»? Subito equiparati agli agenti della Gestapo?
In un Paese che non abbia svilito il ruolo delle forze dell’ordine fino a renderle impotenti, l’occupazione abusiva di un appartamento viene liquidata per ordinaria amministrazione: si va e si sloggia. Quando ciò non accade - e da noi purtroppo non accade -, quando viene meno la certezza di essere tutelati nei propri diritti, è la stessa impalcatura della convivenza civile che traballa. Se proprio non si torna al far west, di sicuro si pongono i presupposti per la comparsa delle «onorate società» in grado di rendere, sebbene in forma rusticana, quella giustizia e quindi quel presidio che lo Stato non è in grado o non vuole assicurare.

Episodi come quello da lei riferito, caro Di Giorgio, contribuiscono infatti ad alzare ancor di più la soglia dell’insicurezza inducendo quanti temono di essere a rischio a predisporre, in caso di assenza, turni per il picchettaggio del proprio alloggio. È l’Italia diversa, è l’Italia «più seria», è l’Italia migliore che ci aveva promesso Prodi.

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