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Non commise reato il giudice che uscì dall'aula con il crocifisso

La corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna a sette mesi di reclusione per omissione di atti d'ufficio per il magistrato del tribunale di Camerino che, appellandosi alla libertà religiosa, si rifiutava di lavorare sotto il Cristo in croce

Secondo la corte di Cassazione non commise reato il giudice che, appellandosi alla libertà di religione, si rifiutò più volte di tenere udienze lì dove era appeso un Crocifisso. E così la questione dei simboli religiosi esposti nelle aule giudiziarie, portata alla ribalta dal giudice di Camerino Luigi Tosti, "ha una sua sostanziale dignità e meriterebbe un adeguato approfondimento".
Così scrive la Cassazione nella sentenza con la quale spiega il motivo per il quale, il 17 febbraio scorso, decise di annullare senza rinvio "perché il fatto non sussiste" il verdetto della Corte d'appello dell'Aquila che aveva condannato a 7 mesi di reclusione e a un anno di interdizione dai pubblici uffici il magistrato per rifiuto di atti di ufficio. Reo, per i giudici, di essersi rifiutato di tenere udienza in aule dove era appunto esposto il Cristo in croce. I supremi giudici hanno cancellato la sentenza di condanna emessa nel 2007 dalla Corte d'Appello dell'Aquila, perché, dalla ricostruzione dei fatti, non si era verificata una «omissione di atti di ufficio», in quanto il giudice, nel rifiutarsi di operare, aveva segnalato la sua protesta al presidente del Tribunale di Camerino, che "aveva tempestivamente provveduto a sostituirlo con altri magistrati, sicché l'attività giudiziaria si era egualmente svolta". Non c'era stato reato, quindi, ma si erano verificati, al massimo, "problemi di organizzazione interna dell'ufficio".
Su un punto la Cassazione si sofferma: la tesi del giudice Tosti nel corso dell'udienza di febbraio che, ricordano gli "alti" giudici, "si è svolta in aula priva del simbolo confessionale", "al di là dei toni esasperati e delle espressioni talvolta paradossali" che hanno caratterizzato la protesta e che ne "rivelano la chiara strumentalità" introduce "certamente una problematica di estrema delicatezza, quella cioè dell'esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, vivacemente dibattuta non solo in Italia, ma anche in altri paesi dell'Unione Europea con soluzioni diverse a livello giurisprudenziale e normativo".
La sesta sezione penale della Suprema Corte rileva, con la sentenza numero 28482 depositata oggi, di non ritenere "di dover affrontare in questa sede tale problematica", ma rileva che «allo stato non risultano essere state adeguatamente affrontate e risolte alcune tematiche di primario rilievo per la corretta soluzione del problema». Infatti, osservano gli "ermellini", la circolare del ministero della Giustizia risalente al 1926 che imponeva il crocifisso nelle aule, "atto amministrativo generale che appare però privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell'azione amministrativa", tenuto anche conto "dell'epoca a cui risale, non sembra - si legge nella sentenza - essere in linea con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia, pure costituzionalmente presidiata, della libertà di coscienza e di religione". Bisogna, sottolinea la Corte, "individuare l'eventuale sussistenza di un'effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del Crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede».
La contestazione della legittimità dell'affissione del Crocifisso nelle aule di giustizia «avvenuta sulla base di una circolare ministeriale non assistita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo, implica - si legge ancora nella sentenza - un problema di carattere generale che può essere fatto valere sollecitando la pubblica amministrazione a rivedere la propria scelta dell'arredo delle dette aule e, in caso di esito negativo, adendo il giudice amministrativo che ha giurisdizione esclusiva al riguardo, vertendosi in tema di contestazione della legittimità dell'esercizio del potere amministrativo».
Perciò nessun reato.

E le sole "inadempienze interne" del giudice Tosti potranno "trovare risposta soltanto sul piano disciplinare".

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