Non deve mollare adesso

Quando il motore ha fatto puff, sui capipopolo della rossa, sulle cuffie di Jean Todt, sul casco di Michael Schumacher, sui volti di quelle decine di uomini vestiti di rosso che si spaccano la schiena per far vincere il Cavallino e l’Italia, su tutti loro è calata una tristezza infinita. Non chiamiamola tragedia rossa solo per rispetto verso le tragedie vere, e perché in F1 si gioca con il rischio e la morte, per cui meglio non scomodare certe parole. Però, la tristezza, quella sì, era rossa e infinita: perché questo mondiale era, sarebbe stato, forse potrebbe ancora essere il mondiale dell’umiltà ferrarista: sembrava perduto e l’avevano saputo riacciuffare con il lavoro e gli straordinari di tutti, dal miliardario Schumi all’operaio Rossi, ognuno nel proprio ruolo, chi a comandare, chi a guidare, chi a imbullonare e avvitare. La Ferrari, dopo Malesia e Australia, era solo marzo, pareva aver perso la diritta via, sembrava franare in un burrone, poi una mano l’aveva salvata e pian piano, a fatica, tirata su. Ora quella stessa mano ha mollato la presa. E giù, nel burrone. Checché ne dicano kaiser Schumi e monsieur Todt, ancora per quindici giorni la matematica li mantiene e li manterrà in gioco: dieci punti separano il tedesco da Alonso, nove la rossa dalla Renault. Michael e il gran capo francese sostengono che non sarebbe bello vincere così, perché per vincere, stavolta, servirà il tonfo altrui. Invece bisogna sapersi calare anche nei panni di chi se ne frega di questo, perché il tedesco avrà anche conquistato sette titoli e «uno in più non cambierebbe molto la situazione», sostiene Todt, ma cambierebbe, e tanto, l’umore della truppa ferrarista, di coloro che si spaccano la schiena, di quelli che se il motore di Alonso facesse puff non applaudirebbero davanti alle telecamere ma dentro il cuore. Perché il mondiale dell’umiltà vuole e voleva dire anche questo: crederci sempre. Perché tutto pareva perduto e invece sono ritornati su dal burrone. Per questo, ben ha fatto il presidente tifoso Luca di Montezemolo a dire ai suoi, e non solo ai suoi, che invece no, si può ancora vincere e sarebbe bello lo stesso. Le sue parole sono chiare, dirette: «Sono molto dispiaciuto per quanto successo a pochi giri dalla fine... Mi dispiace in modo particolare per lui, per Michael Schumacher che stava facendo ancora una volta una gara perfetta dimostrando di essere il migliore, oltre che un uomo straordinario. E mi dispiace molto per la squadra, che non aveva sbagliato nulla». Perché è giusto dispiacersi, è giusto disperarsi, perché uno Schumi che dice «merda, non ci voleva» sarebbe meno poeta e filosofo di quello visto a Suzuka ma, forse, più vero. Per cui, sì, «una giornata come questa ci dà ancora più determinazione per il futuro – va avanti il presidente – e il nostro mondiale finirà all'ultimo metro del Gran Premio del Brasile: forza Ferrari!». Il morale delle truppe rosso vestite ha proprio bisogno di questo, ha bisogno di sentire ancora l’odore della preda Renault, ha bisogno di lottare fino in fondo e di sapere che è bello far festa anche se si vince per grazia ricevuta.

Gli uomini in rosso non hanno bisogno, invece, di scoprire che quando il loro motore ha fatto puff, in sala stampa, è partito un grande applauso. E non era italiano, e non era spagnolo. Ma non cambia la sostanza: fa male lo stesso

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