Cronaca locale

Non fu omicidio, il feto non respirò mai

La donna, grande obesa, non capì di essere incinta. Partorì in bagno sulla tazza e il bimbo finì in acqua

Enrico Lagattolla

In un certo senso, è morto senza essere mai nato. Il paradosso di una storia tragica, ma vera. Quella di una donna dell’hinterland milanese, che soffre di grave obesità e non sa di aspettare un figlio, e nemmeno si accorge di aver partorito. Perché lo fa in bagno, seduta sul water, credendo di soffrire per una colica quando invece il dolore che sente è quello del travaglio. Partorisce, e il bambino - di otto mesi, e sano - perde la vita in acqua per asfissia. La donna, inizialmente accusata di omicidio volontario, è stata ieri prosciolta. Tecnicamente per l’assenza di quell’elemento soggettivo che avrebbe determinato un’incriminazione. I consulenti della Procura scrivono, inoltre, che subito dopo il parto, e immediatamente prima di finire con la testa nell’acqua, «il feto percorreva un brevissimo tratto, del tutto insufficiente, a consentire l’inizio dell’attività respiratoria». Dunque il bambino non ha mai respirato, e «deve pertanto considerarsi come “mai nato” a tutti gli effetti, e quindi anche in senso giuridico».
Un’impostazione - quella dei medici legali - fatta propria anche dal pubblico ministero, e condivisa dal giudice. Che, innanzitutto, ha valutato la «probabile capacità di intendere e di volere dell’indagata a momento del fatto - come scrive il pm nella sua richiesta di archiviazione - e l’assenza di colpa dell’indagata», ma si è trovato di fronte a una circostanza giuridicamente «al limite», ed eticamente complessa.
Dovendo escludere il reato di procurato aborto volontario, di feticidio (che è un delitto di tipo doloso, ma in questo caso alla donna non era contestata alcuna responsabilità nell’accaduto), e quello di omicidio. Perché, sia nel caso si fosse trattato di omicidio doloso, che colposo, quel reato prevede che la vittima sia in vita. E questo non era il caso.
Il bambino, secondo i medici, era «nato vivo», ma non ancora vitale. E anche se «non vi è motivo per ritenere che il feto fosse andato incontro a morte in utero, né che sarebbe stato vitale e cioè incapace di proseguire con vita autonoma, nel caso in cui fosse stato partorito in circostanza più favorevoli», tuttavia - secondo i medici - il «soffio vitale» non ci sarebbe mai stato. «Dopo l’espulsione - si legge infatti nella perizia - il feto percorreva un brevissimo tratto, del tutto insufficiente a consentire l’inizio dell’attività respiratoria». In altri termini, il bambino era venuto alla luce senza essere vivo, ma nemmeno ancora morto.
Una storia che risale al marzo del 2005, quando la donna, affetta da obesità (oltre cento chili di peso per un’altezza che non supera il metro e cinquanta) e da disfunzioni ormonali, avverte dei forti dolori addominali. In quel momento si trova in casa. Va in bagno, dove partorisce. Senza accorgersene. Chiama il marito, che arriva dopo due ore, e la trova ancora seduta sul water, in stato di shock.

Solo allora si rende conto di aver avuto un bambino.

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