E poi c’è chi parla di soldi, milioni, fama, gloria e belle donne. No. Il Vale nazionale non lo fa per questo. No. Quelli come lui non impennano in pista come nella vita perché animati e spronati e spinti dalla sequela di annessi e connessi che inevitabilmente valorizzano l’esistenza di uno sportivo non appena vittorie e successo iniziano ad accarezzarli. I campioni dello sport, soprattutto di certi sport in cui sofferenza e dolore sono spesso ospiti non invitati, lo fanno perché devono, perché spinti da quell’impagabile senso del dovere e della fatica che se solo appartenesse un po’ di più a tutti noi sai che vita sarebbe… sai che mondo sarebbe e magari… sai che Italia sarebbe.
È questo l’aspetto che troppo facilmente si tende a sottovalutare quando viviamo o commentiamo imprese come quella di Valentino in Germania: pensiamo che i Rossi vivano su un altro pianeta, che esista un mondo lontano dove l’atmosfera è intrisa di gloria e fama e dove tutto è possibile. A volte, invidiosi, pensiamo addirittura che basti atterrare da quelle parti perché tutto divenga più facile, semplice, accessibile. E qui sta l’errore. Invece, quaranta giorni fa questo ex ragazzo è stato operato due volte per inserire un ferro lungo trenta centimetri ad unire la tibia spezzata, scomposta ed esposta; invece, quaranta giorni fa i medici dicevano «lo rivedrete in pista fra quattro mesi»; invece, quaranta giorni fa ha deciso che sarebbe tornato al più presto, nonostante il campionato fuggito via, la certezza che non avrebbe vinto subito e la consapevolezza che avrebbe affrontato tutti i rischi del mondo.
Non è incoscienza la sua, non è strafare, non è un messaggio involontariamente rivolto a un esercito di ragazzini e ragazzi e – chissà – magari persino centauri adulti sempre più permeati da un senso di invulnerabilità. No, non è nulla di tutto ciò. Quella di Valentino è molto più semplicemente una gran voglia di fare, non è un’impresa, bensì il suo normale modo di affrontare la vita e i doveri che la vita porta appresso. Basta domandare ai suoi prof. del linguistico se per caso il Vale nazionale, da ragazzino, si applicava allo studio oppure no. Risponderanno tutti che non amava sfigurare, che ci teneva, comunque e sempre, a far bene.
Fare, fare, fare, è questo che lo anima, per cui Valentino osannato campione del mondo, nove volte campione visto che fare e rifare vanno a braccetto, fosse stato operaio sarebbe stato il migliore al proprio tornio, fosse stato impiegato avrebbe archiviato o stampato o fatto di conto meglio di altri, fosse stato spazzino – oggi si dice «operatore ecologico» - avrebbe «operato» o pulito meglio degli altri perché, in quel pezzo di carta e in quella lattina buttati là nell’angolo che il collega non aveva raccolto, il Vale spazzino avrebbe trovato lo stimolo per fare qualcosa di più per vincere il suo Gran premio giornaliero.