«Non mi sento un killer»

Parla il giovane accusato: «Siamo gente tranquilla, ma da quel giorno tutto è cambiato nella nostra vita»

Enrico Lagattolla

Quattordici mesi dopo. Rocco Maiocchi ha 28 anni, e sulle spalle un’accusa di omicidio volontario che lo ammutolisce. Fu lui a sparare il colpo che uccise Mihilo Markovic, montenegrino di 21 anni che con un complice tentò una spaccata alla sua gioielleria di via Ripamonti. Era il 13 aprile 2004, un martedì. Come ieri, un’altra giornata nella sua oreficeria. Poca voglia di raccontare, nessuna di ricordare. Eppure, quattordici mesi dopo, schegge di memoria che affiorano.
Quel martedì. «Ti posso dire questo. Che era pieno giorno, e che all’improvviso abbiamo sentito un colpo fortissimo. Poi abbiamo visto due persone che con una mazza erano riuscite a sfondare la vetrata, che tra l’altro era blindata». Poi non racconta più nulla «perché è meglio così, non ti posso dire altro». Solo «che tutto cambia».
Cambia in che modo? «Cosa ti posso dire, è come uscire di casa una mattina ed essere vittime di un incidente. Così, da un giorno all’altro». Eppure. «Eppure siamo ancora qui, tutti i giorni in negozio a fare il nostro lavoro».
Ha modi gentili, Rocco. Dietro al bancone della gioielleria, le risposte cortesi ai clienti. «Siamo gente tranquilla. Lo vedi? Qui entrano genitori con i figli, nel quartiere ci conoscono, sanno che siamo persone oneste e pacifiche».
Il quartiere, appunto. Ancora una volta via Ripamonti è sotto i riflettori della cronaca. «Guarda che è un bel quartiere, quando sono andato ad abitare da solo ha deciso di rimanere qui. Perché ci abita gente per bene». E poi «Ricordo che subito dopo quella rapina, gli abitanti della zona sono scesi in strada per manifestare la loro solidarietà a mio padre e a me. Nulla di organizzato dalla politica, è stato qualcosa di spontaneo. Sono rimasto molto colpito, è una cosa che da allora mi resta dentro». Però. «Però via Ripamonti è abbandonata a se stessa. Guarda cos’è successo a quella ragazza in via Chopin. Le caserme sono inutili se non ci sono gli agenti per strada».
Il problema «è che è una zona poco presidiata». E infatti «abbiamo subito diversi furti. Una volta ci hanno lasciato senza nulla, letteralmente. Ma un assalto come quello, ti assicuro, non ci era mai capitato».
Rocco va avanti e indietro, tra bottega e retro. Giuseppe, il padre, è con lui. Nel laboratorio, a riparare orologi. Ma da lì non esce mai, non si affaccia al bancone, preferisce non farsi vedere. La sua presenza si intuisce dalle poche parole scambiate col figlio. Su di lui grava l’accusa di concorso in omicidio volontario. Nessun commento, nessuna reazione.
Allora è Rocco che continua a parlare. Nel via vai dei clienti, che è costante. Per entrare si suona un campanello, si passa una prima porta, e solo quando quella si è chiusa, da dentro aprono anche la seconda. «È sempre stato così, fin da quando sono piccolo». Qualcuno suona, un’occhiata per decidere se aprire.
Chiedergli se si sente innocente è superfluo. Dice che «sì, ovviamente», ma non vuole aggiungere altro. Diverso chiedergli se si sente tranquillo.

Allarga le braccia e prova a rispondere sì, ma lo vedi che non è convinto. «L’accusa è pesante. È come vivere con una spada di Damocle sulla testa. Succede che inizi ad essere fatalista, anche se in realtà fatalista lo ero anche prima. Ma forse, da allora, lo sono di più».

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