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"Non pagare la prostituta è stupro" E la Cassazione bacchetta i clienti

Una sentenza stabilisce che non pagare una prestazione sessuale precedentemente pattuita, corrisponde a un atto di violenza sessuale

"Non pagare la prostituta è stupro" 
E la Cassazione bacchetta i clienti

Roma - Rischia una condanna per violenza sessuale il cliente della prostituta che dopo il rapporto non le dà il compenso pattuito. A stabilirlo è stata proprio la Corte di cassazione. A farne le spese Diego S. che, essendosi rifiutato di pagare Laura S., è stato appunto condannato per stupro.

Ricorso respinto La sentenza ha confermato la condanna a 4 anni di reclusione, con interdizione perpetua dagli uffici attinenti la tutela e la curatela, inflitta dal tribunale di Genova a Diego S. per violenza sessuale e violenza privata, condannandolo anche a risarcire i danni alla vittima con una provvisionale di duemila euro. L'imputato non aveva pagato una prostituta, Laura S., e quindi era finito sotto processo: nel suo ricorso a Palazzaccio, aveva lamentato il fatto che i giudici del merito avevano ricondotto tutto "al giudizio di assluta attendibilità della teste, parte offesa e di credibilità di quanto da essa dichiarato in merito allo stato di soggezione che avrebbe causato nella donna una supina accettazione delle iniziative sessuali del prevenuto". La Suprema Corte ha rigettato il ricorso: "La vicenda non può inquadrarsi - spiegano gli "ermellini" - in quella fattispecie particolare nella quale la donna risulta consenziente all’inizio del rapporto sessuale, per poi, manifestare il proprio dissenso a continuarlo visto che, nel caso in esame, la vittima aveva già manifestato all’imputato di essere solo in attesa del pagamento del dovuto, per l’attività dalla stessa prestata, come ab origine concordato tra le parti".

Cancellare le tracce Correttamente, scrive la Cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto che "non sussiste dubbio che l’imputato avesse piena coscienza e consapevolezza del sopruso che stava consumando in danno della donna: il comportamento di costui - si legge nella sentenza - ne costituisce prova, in occasione della richiesta al portiere dell’albergo di distruggere le schede di permanenza nell’hotel dove era avvenuto l'incontro.

Ciò, osserva la Supprema Corte, evidenzia il desiderio dell’imputato di non lasciare traccia della permanenza, circostanza spiegabile solo con lo scopo di precostituirsi la possibilità di una futura negazione, "che non avrebbe avuto senso se colà si fossero consumati rapporti consensuali e non imposti".

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