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«Non sapevamo di questo sequestro» «È il Pakistan: cerca di destabilizzarci»

da Kabul

«Aiutate Clementina» è l'appello stampato su un migliaio di manifesti, che ieri sono stati distribuiti e affissi nei quartieri di Kabul. L'iniziativa è di Care, l'organizzazione non governativa, per la quale la volontaria italiana ha lavorato negli ultimi tre anni. La distribuzione a tappeto continuerà oggi con l'aiuto di una ventina di organizzazione umanitarie. Ieri mattina sono partiti dalla sede di Care, non lontana dal luogo dove è avvenuto il rapimento di Clementina, una decina di volontari con 500 manifesti, che sono stati consegnati ad altri gruppi che sono poi andati nei diversi quartieri di Kabul. Al centro del manifesto c'è una foto di Clementina con il velo che abbraccia una bambina afghana.
«È stata rapita. In Afghanistan - spiega il testo - ha aiutato 10mila vedove e 50mila orfani di guerra. Se siete a conoscenza di qualsiasi informazioni sulla sua sorte chiamate il seguente numero....», che corrisponde ad una linea speciale. Uno dei quartieri più a rischio è quello di Karte Naw, ritenuta la roccaforte di Timor Shah, che ha rivendicato il sequestro. Mohammed Zaman - un ingegnere che ha lavorato con Clementina, anche in questo quartiere, per garantire acqua potabile e distribuire cibo - si ferma al primo incrocio e incolla il manifesto di Clementina su un palo della luce, probabilmente fuori uso. Una piccola folla di afghani si riunisce attratti dalla curiosità più che dal reale interesse di dare una mano.
Mohammed Daoud, il macellaio sull'angolo, non ha dubbi: «L'Islam proibisce questi crimini. Si tratta dei soliti tentativi del Pakistan di destabilizzare il nostro Paese. Pagano i criminali per rapire gli stranieri e provocare insicurezza». Muktar, un giovane afghano che parla bene l'inglese si fa riprendere orgoglioso dalla telecamera con il manifesto di Clementina alle spalle, giura che è un oltraggio. Ma è poco chiaro a quanto serviranno realmente i manifesti. Gran parte degli afghani non sanno leggere e nei quartieri poveri pensano agli affari propri e a come sopravvivere.
Alcuni giovani che sfornano il nan, il pane piatto afghano, sudati e stanchi spiegano il concetto: «Non sapevamo neppure che fosse stata rapita e comunque non ci interessa. Noi lavoriamo dalla mattina alla sera e basta». I volontari di Care non demordono e appiccicano un manifesto all'ingresso della panetteria, che assomiglia ad una spelonca.
Il quartiere di Karte Naw ne ha viste di tutti i colori, come gli spietati scontri fra mujaheddin, all'inizio della guerra civile, quando crollò il regime comunista nel 1992. Dalla fortezza di Bala Hissar i tagliagole uzbechi del generale Abdul Rashid Dostum tiravano cannonate ai miliziani dell'Hezb i Islami del signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar. La popolazione era fra due fuochi e gli uzbechi raccontavano, a chi vi scrive, che venivano pagati dieci dollari ogni paio di orecchie tagliate ad un nemico ucciso. «Questo rapimento è un'offesa non solo all'Islam, ma pure la Pashtunwali, il codice d'onore di noi pashtun, che obbliga all'ospitalità e al rispetto dello straniero che viene in pace. Questa donna ci aveva fatto solo del bene», dice Said Mohammed, 65 anni, barbone bianco, turbante verde, capo di un lurido vicolo con le fogne a cielo aperto.

Quando, però, si chiedono informazioni dirette su Timor Shah tutti fanno scena muta.

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