Non scomodiamo Voltaire con il «politically correct»

Caro dottor Granzotto, nei romanzi inglesi di una volta capita spessissimo di incontrare lo scrittore (scrittrice) di lettere al Times. È una macchietta, e mi sa tanto che anch’io sto prendendo quella china. Abbia pazienza, d’ora in poi cercherò di controllarmi, ma questa volta non ci riesco. D’altronde confido che l’allegato briciolo di informazione che ho tratto dal sito Internet www.hypernote.com la divertirà come ha divertito anche me. Almeno dovrebbe, se la sua venerazione per Voltaire è dello stesso calibro della mia. «The phrase I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it is widely attributed to Voltaire, but cannot be found in his writings. With good reason».


Ma no, gentile lettrice, ma quale macchietta! La figura letteraria alla quale si riferisce è un monumento alla britannicità e lei fa bene ad imboccare quella china, se china la si può chiamare. Prometta di scriverci ancora. E ora, a noi: «Disapprovo quanto dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo» (o, in alternativa: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo»). Frase che in occasione della scurrile gazzarra all’Università di Roma abbiamo sentito e risentito. Ovviamente sempre attribuita a Voltaire. Per riflesso condizionato, ritengo: un’affermazione così «forte» (e ipocrituccia assai: ma via, offrirsi in olocausto perché Pecoraro Scanio, mettiamo, possa esprimere le sue diciamo così idee. Altro che la vita, nemmeno due linee di febbre, nemmeno un raffreddore) non poteva che esser parto dell’autore del «Trattato sulla tolleranza». E invece, no. Ne disse tante, il buon François-Marie Arouet, ma quella no. In nessuna pagina della sua pur esorbitante produzione è possibile rintracciare quell’aforisma. Non gli venne in mente? O gli venne ma s’accorse che era troppo teatrale, esagerato anche per orecchie illuministe, eppure abituate a sentirle sparar grosse, e preferì tenersela per sé? Mah.
Va però aggiunto che il reato di falsa attribuzione è temperato, se vogliamo, dall’acquaragia del politicamente corretto e sappiamo bene quanto ciò conti, oggidì. È infatti una donna (mi rivolgo non a lei, gentile lettrice, che conosce la storia, ma ai lettori i quali forse, non è detto, l’ignorano), Evelyn Beatrice Hall, che s’inventò la massima infilandola poi nella sua biografia del filosofo e pensatore, «The Friends of Voltaire», gli amici di Voltaire, pubblicato a Londra nel 1906. Onore quindi alla civile inventiva del gentil sesso, anche se Evelyn - ma i tempi erano quelli che erano - preferì dissimularlo nello pseudonimo neutro di S.G. Tallentyre. A me il «disapprovo quel che dici eccetera eccetera» non m’è mai uscito di bocca. Mi sarebbe venuto da ridere.

Però i tanti, tantissimi che ne hanno fatto - e ne fanno - un passepartout dialettico, saranno contenti di sapere che è di conio femminile. Di una donna che in quanto a retorica ne sapeva non solo una più del diavolo, ché quella è la regola, ma una più di Voltaire. E scusate se è poco.

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