In nome del popolo italiano, non chiamateci alle urne. Vi abbiamo dato un mandato ampio e chiarissimo, vogliamo un governo di legislatura, autorevole e deciso, che sia giudicato dagli elettori alla fine del suo mandato. C’è un premier che è arrivato a Palazzo Chigi con un ampio consenso ed è assurdo che oggi sia isolato insieme a poche decine di milioni di italiani. Ieri lo ha detto pure lui, Berlusconi, che è una follìa andare alle urne con quel mandato elettorale così chiaro. E penso che lo abbia capito anche Fini. Io non condivido quasi nulla del nuovo corso di Fini e lo scrivo da anni, prima ancora che approdassi al Giornale, anche in solitudine. Ma sono pronto a capire il suo gioco politico, è libero di dar vita ad un nuovo corso e perfino ad una conversione. Non mi spaventerebbe un Fini islamico, radicale e trans-politico. Una cosa sola è però necessaria in una democrazia: che questa sua nuova linea sia testata dalle urne, sia verificata dal voto popolare, abbia un seguito e un consenso reale, non quello mediatico, oligarchico o l’interessato plauso dell’opposizione. Se chiamassimo la casalinga di Voghera, o di Bisceglie, a far da arbitro delle istituzioni, nel nome del popolo sovrano, direbbe una cosa di assoluto disarmante buon senso: questa legislatura si concluda fedelmente al suo mandato, chi ha chiesto e ottenuto voti nel nome di un programma, un leader, una coalizione e una linea politica, governi pure. Poi, a fine giro, ognuno può disegnarsi un altro programma, indicare un altro leader, preferire un’altra coalizione, e darsi una nuova linea politica. Io che ho una mente più contorta della casalinga di cui sopra, arrivo persino ad ammettere che un politico possa cambiare opinione all’indomani delle elezioni e che esterni perfino il suo cambiamento; ma deve avere la lealtà di rispettare il patto con gli elettori e con gli alleati e non boicottarlo. Ovvero, per tornare a Fini, ha due possibilità: dichiari pure che ora lui la pensa in modo molto diverso rispetto alle elezioni dello scorso anno, primavera del 2008, che oggi non sottoscriverebbe quel programma, non sosterrebbe quel premier, non accetterebbe quel partner di Bossi; ma avendo raccolto i consensi con quel programma, quel leader, quegli alleati, rispetta il patto fino al termine del mandato. Oppure, se non se la sente più di farlo, ha ancora un’altra, estrema possibilità: si dimetta da presidente della Camera e corra per conto suo, scelga una camera singola, con letto a una piazza. In quel caso una maggioranza lungimirante non lo dovrebbe vituperare ma aiutarlo, magari con l’opposizione, a trovarsi un ruolo più defilato e più bipartisan, ad esempio la presidenza di un’authority o meglio ancora un ruolo europeo, del tipo di quello che vogliono assegnare a D’Alema. In modo da prepararsi al prossimo giro, anzi da farsi il futuro. Per governare c’è bisogno di una maggioranza compatta e di un governo che non viva sotto schiaffo e sotto il tallone della magistratura. Dunque, si studi il percorso più efficace in tema di giustizia. A me la via più giusta pareva non il ritorno all’immunità parlamentare e nemmeno la legge sul processo breve, che dovrebbe invece servire ad un’esigenza più generale, quella effettiva di abbreviare i tempi dei processi e non quella di far decadere alcuni processi a Berlusconi. Ma più saggio era il Lodo Alfano, ripensato dopo le obiezioni della Corte. Casini e Fini dicono che andrebbe ripresentato come legge costituzionale e sul piano dei principi l’osservazione è ineccepibile. Ma i tempi lunghi rischiano di renderlo inefficace nel caso specifico. Allora si concordi una soluzione parlamentare e istituzionale per ripresentare un lodo di quel tipo. A chi dice che la giustizia rischia così di essere sfasciata dal governo Berlusconi, ricordo che la giustizia è stata già sfasciata da tre fattori in cui il governo Berlusconi non c’entra un tubo: il ritardo pauroso dei processi, il tasso superiore al novanta per cento dei reati che restano impuniti e l’uso ideologico, fazioso, ritorsivo della giustizia, con i suoi sconfinamenti negli altri poteri, l’esecutivo e il legislativo. Per non dire delle decisioni dei magistrati che tante volte vanificano il lavoro delle forze dell’ordine. Anche a considerarla nel modo peggiore, la riforma della giustizia del governo Berlusconi rimescolerebbe un corpo già sfasciato, delegittimato e inaffidabile. Tradotto nel linguaggio politico spiccio, il discorso è questo: se volete evitare la jattura delle elezioni anticipate, che mi pare una follìa dopo quel chiarissimo mandato popolare, organizzatevi pure in vista del 2013 per una svolta che porti al governo Casini o Fini, un terzo incomodo, magari outsider, come Draghi o Montezemolo o la vecchia sinistra, Di Pietro o i Tecnici, e perfino il Sarchiapone. In un Paese serio non ci sarebbe bisogno di chiamare la casalinga di Voghera o di Bisceglie a dirimere la controversia. Basterebbe il presidente della Repubblica. Un presidente che esorti tutti a rispettare il mandato avuto dagli elettori, rimandando ogni gioco diverso al prossimo giro. E al suo seguito dovrebbero venire i presidenti delle Camere e perfino i leader dell’opposizione. Se fossimo un Paese serio, il capo dello Stato, con i presidenti delle Camere, imporrebbe al premier tappi di cera nelle orecchie e lo legherebbe all’albero della nave col preciso mandato di non ascoltare le sirene di ogni tipo - donne, giornalisti e magistrati - che lo portano a infrangersi sugli scogli per concentrarsi a navigare, cioè a governare fino alla meta.
Perché c’è un Paese da guidare, ci sono leggi per la famiglia e per la salute, per l’economia e per la cultura, per la sicurezza e per il Sud, per la pubblica amministrazione e per le energie da realizzare. Compito delle istituzioni dovrebbe essere quello di richiamare il premier ai suoi doveri nei confronti degli italiani e non di impedirgli di governare. Se fossimo un Paese serio, però.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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