di Denis Verdini*
Il confronto di idee all’interno dei partiti, e anche lo scontro tra posizioni diverse, è quasi sempre un grande segno di vitalità e aiuta a crescere insieme. In politica c’è il tempo dei dibattiti proficui e c’è quello in cui bisogna concentrarsi sugli obiettivi da raggiungere. In questo senso credo sia opportuno dare un avviso ai naviganti: siamo in campagna elettorale, e c’è molto da fare, a Roma e come nella periferia «dell’impero», per consolidare posizioni acquisite e per conquistare le troppe regioni ancora governate dal centrosinistra. Detto questo, non mi sottraggo certo al confronto che è stato aperto su queste pagine sulla natura del Pdl, sulla sua struttura, sui rapporti tra ex Forza Italia ed ex An, sul cammino che resta ancora da fare perché la grande intuizione di Berlusconi trovi piena attuazione.
Qualche tempo fa un giornalista mi chiese: «Cosa risponde a chi definisce il Pdl una federazione verticistica e incentrata sulla figura carismatica del suo leader?». Risposi che mi sembrava una definizione esemplare, e che sulla figura carismatica del leader non avevo proprio nulla da obiettare. Ormai si deve avere il coraggio di affermare che le accuse rivolte ripetutamente a Forza Italia di essere il partito che non c’è o il partito di plastica, un’aggregazione temporanea determinata da una leadership eccezionale, erano frutto di analisi poco approfondite e profondamente errate.
Il modello di partito incarnato da Forza Italia, e che trova un solido filo di continuità nel Pdl, ha come riferimenti ideali proprio i partiti carismatici di marca anglosassone. Noi abbiamo costruito un moderno partito in cui si possono coniugare leadership e democrazia. Riprendere quindi vecchie categorie, come quella del cesarismo, è solo un modo per riportare indietro l’orologio della politica. La verità è che in Italia tutti hanno copiato Berlusconi. E poi si è visto che se i partiti mancano ancora di programmi ben chiari, di coesione politica e di organismi stabili – come il Pd – le primarie, anche quando hanno esiti plebiscitari, non danno vita a leadership autorevoli e carismatiche. Per cui, chi il leader carismatico ce l’ha, come il Pdl, fa bene a tenerselo stretto. E lo Statuto che il congresso costitutivo ha approvato all’unanimità contiene gli anticorpi necessari per respingere al mittente le tentazioni correntizie e il ritorno ai vecchi sistemi partitocratici, che io non solo ho sempre rifiutato ma anche pubblicamente censurato.
Il nostro è un partito presidenziale, e lo Statuto conferisce al presidente poteri amplissimi anche, ad esempio, nella scelta delle candidature regionali, mentre prevede una estesa democrazia dal basso nel livello comunale del partito. Quando nacque il Pdl – e voglio ricordare che è nato sul predellino di piazza San Babila e poi nelle urne delle politiche di aprile 2008, dunque prima che si fosse dotato di una struttura dirigente – fummo tutti d’accordo nel dire che non avrebbe mai dovuto essere la semplice sommatoria di Forza Italia e di An, e non vedo dunque alcuna minaccia o deriva se dentro il partito è in atto, com’è avvenuto al convegno di Arezzo, una saldatura trasversale fra dirigenti ex Fi ed ex An. Soprattutto non ci vedo alcuna tentazione correntizia, semmai intravedo una luce alla fine del tunnel: ciò che era fisiologicamente nato sulla base di un’iniziale divisione di «quote», pian piano si sta trasformando nell’osmosi che Silvio Berlusconi con la sua lungimiranza ha proposto nell’aprile 2008 ai nostri elettori, ottenendo una risposta straordinaria. Non era questo l’auspicio di molti, se non di tutti?
Mi rendo conto che in fondo è giusto diffidare delle nomenklature, che sono fisiologicamente conservatrici, e lo faccio per primo io, usando una frase che spesso mi ha attirato più di qualche critica: «Più li conosci e meno li voti». Con ciò non intendo fare di ogni erba un fascio, ma voglio sottolineare che troppo spesso le classi dirigenti locali rappresentano un muro invalicabile e di gomma per l’elettorato, quindi l’esatto opposto di ciò che dice e pratica Berlusconi. Ciò non toglie che esse, se «sposano» appieno la filosofia del leader e il suo modo di concepire la politica, possano e debbano rappresentare per lui una risorsa. Questo vale tanto più per un partito che aspira a diventare il più grande della storia d’Italia, e che può contare su centomila dirigenti sparsi sul territorio.
Dando vita al Pdl, Berlusconi ancora una volta ha visto più avanti di tutti, ma questo non può sorprendere, perché la sua sintonia con il comune sentire degli italiani e con la modernità della politica sono da sempre uniche. Come non può sorprendere che le nomenklature di Forza Italia e di An in un primo momento abbiano avuto una reazione corporativa, difensiva, perché il nuovo per molti rappresenta sempre un salto nel buio che mette a rischio le rendite di posizione acquisite con anni di impegno e di lavoro. Ma Berlusconi ha il pregio di pensare sempre in grande, e quando si vivono grandi trasformazioni politiche come quella attuale non c’è spazio per piccoli interessi di bottega o per il basso cabotaggio. Nel Pdl è il leader che garantisce, col suo carisma, il rapporto con gli elettori, e sbaglia chi pensa che si tratti di una deriva plebiscitaria: questo, in realtà, non è altro che il canovaccio della democrazia moderna. Tornare indietro sarebbe un suicidio.
Credo sia chiaro a tutti che il partito debba costituire l’indispensabile supporto all’azione del governo, che in questo momento esprime il massimo del riformismo possibile, che sta mantenendo tutte le promesse e che gode di un consenso senza precedenti nel Paese. Questo è il nostro compito, questa è la nostra missione.
*Coordinatore nazionale Pdl
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