Non si può divorziare dal bisogno d'amore (anche se ci lasciamo)

Diego De Silva analizza la fine di un matrimonio. Vivisezionando le falle del rapporto coniugale

Non si può divorziare dal bisogno d'amore (anche se ci lasciamo)
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«La verità, vi prego, sull'amore» chiedeva W.H. Auden nella sua raccolta di poesie, senza venirne a capo. Per Nietzsche, invece, «l'amore è quello stato in cui l'uomo vede le cose come non sono». Ma l'amore non nel senso passionale di Proust (che, secondo Marcel, durava diciotto mesi), bensì quello che porta a sposarsi, cioè a firmare un contratto con lo Stato, e che a un certo punto finisce? È appena uscito l'ultimo romanzo di Diego De Silva, e affonda il dito nella piaga, e con il dito tutto il resto che resta di sé quando finisce l'amore. Titolo, già emblematico: I titoli di coda di una vita insieme, edito da Einaudi.

È una vivisezione poetica, ma anche chirurgica e spietata, senza sentimentalismi ruffiani, dolorosa ma anche umoristica (a volte), di un matrimonio quando finisce. I protagonisti sono una coppia, Alice e Fosco, sul punto di divorziare. Una coppia normale, come tante altre, con niente di speciale, e proprio per questo raccontarla come fa De Silva è qualcosa di molto speciale. È uno di quei romanzi pieni di riflessioni da soffermarsi a ogni pagina, che inizia con un pensiero non intuitivo (proprio come spesso è la scienza): «Per quanto illogico sembri, sono i difetti che tengono in vita le coppie. Gli atteggiamenti che irritano, i momenti in cui diventi bersaglio di provocazioni improvvise, sfrontate, figlie di piccoli rancori mai superati se non dagli anni (che passano ma non risolvono), rancori prescritti e dunque inesigibili che ancora bruciano; le frasi che non vorresti più sentire (quante volte le hai chiesto di non ripeterle?), le abitudini moleste, le dimenticanze, gli intercalari sbagliati che sei stanco di riprendere. Sono queste le cose che contano». Mentre quando arriva il momento in cui «non c'è nessun fastidio reciproco, tu qui, lei pure, e siete gentili l'un l'altro, finanche premurosi a volte, è allora che è finita».

C'è l'analisi ossessiva di quando è iniziato a finire tutto, quando sono cambiate le cose, la ricerca del momento esatto, la vana ricerca del «momento in cui ho visto la crepa e ho preso atto della fine, perché non c'è. L'amore è discreto nel morire, non si lamenta e non fa scenate, non ci informa quando si ammala». Finché non arriva, anche quella imprevedibile, la presa di coscienza, quando «si fa esperienza della peggiore estraneità: quella tra due persone che non si spiegano come abbiano fatto a vivere per tanti anni con qualcuno con cui non hanno più niente da dirsi».

In tutto questo, che è la storia di un divorzio ma non La guerra dei Roses, De Silva riesce a essere delicato e feroce, freddo scienziato e romantico incredulo, non c'è una sola riga di noia come potrebbe essere la storia di un divorzio senza eventi eclatanti, perché gli eventi eclatanti sono minimi e infliggono piccole ferite che si allargano con il tempo. Nonostante, quando una coppia divorzia, ci si schieri sempre con l'uno o con l'altro, per cercare le colpe. «È tipico degli indifferenti svalutare il dolore degli altri, specie quello che lo Stato di diritto ti riconosce. Ma chi soffre e non lo dice, chi convive con un dolore che non passa, prova un sentimento che non aspira all'uguaglianza, che rifugge dalla classificazione». Ci si ritrova a guardare quei vecchietti che stanno insieme da una vita, e qual è il loro segreto? Quelli che «si danno la mano per strada lasciandosi dietro scie di tenerezza. Forse Alice e io non siamo stati parsimoniosi come loro. Abbiamo sperperato la nostra rendita, e siamo arrivati a questo punto». Un capitale sentimentale che bisogna amministrare con saggezza, portarlo avanti giorno dopo giorno senza strafare, senza dare per scontato che il sentimento e la passione siano illimitati, ma l'amore può essere saggio? Si può amministrare l'amore come un investimento finanziario?

Fino a arrivare nel torbido girone degli avvocati divorzisti. Perché ogni fine, soprattutto tra chi si è amato, meriterebbe il silenzio, non la macelleria delle recriminazioni appoggiate dai legali (Diego De Silva ne sa qualcosa, essendo stato avvocato, come avvocato è il personaggio più famoso dei suoi romanzi, Vincenzo Malinconico). Con tanto di lettera al giudice per spiegare, wittgensteinianamente, quella frase che conoscono tutti di Wittgestein (solo quella in genere), e cioè che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. «All'udienza reggeremo il gioco» scrive il narratore al giudice.

«Ci fingeremo insensibili, indifferenti allo scempio che la legge farà dell'amore che ci ha fatto incontrare e poi è sparito dalla nostra vita senza un saluto. Ne ho rispetto, mi creda. Ma la legge, e soprattutto la giustizia, non c'entrano niente con l'amore. L'amore non è giusto, e non sopporta le regole. È per questo che ci rende felici».

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