«Non voglio quei 5 giocatori» Intanto all’Inter arriva Nedved

Come chiamarla? Una Caporetto? Con Ezio Mauro, Concita De Gregorio, D’Alema, Veltroni, Di Pietro e la truppa dei «sinceri democratici» che risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza? Traditi anche dalla stampa estera che avrebbe dovuto impallinare Berlusconi inchiodandolo lì, davanti ai Grandi della Terra, alle sue responsabilità di tombeur de femmes e invece s’è limitata a registrarne il successo personale, sì, per i congiurati l’Aquila è stata una Caporetto. Invece che a pezzi e pronto alle dimissioni per lasciar posto a un Montezemolo qualsiasi, il Cavaliere, Papi, ne è uscito grandissimamente più forte e popolare di prima. E sì che Repubblica aveva dato fondo a tutto il repertorio del moralismo tartufesco accompagnato dalla sfilata di escort come teste a carico, lasciando sempre intendere che una di loro avrebbe presto rivelato «cos’ e pazzi». Lasciando sempre intendere che dall’archivio d’un paparazzo sardo sarebbe presto uscito, per esser reso di pubblico dominio magari sul giornale hermano El País, quello scatto in grado di polverizzare Berlusconi costringendolo all’esilio. Nel mentre, Massimo D’Alema, accreditato come l’elemento più intelligente del circo della sinistra, se ne usciva con le «scosse», l’ultima delle quali programmata proprio nell’imminenza del vertice dell’Aquila. Scosse che, inutile dirlo, avrebbero segnato la fine del governo Berlusconi.
Partito il vertice, le dichiarazioni e il comportamento di Obama scossero invece, e alle fondamenta, la redazione di Largo Fochetti e lo smisurato ego di Massimo D’Alema. L’intenso fuoco di interdizione non era servito a niente. E di scosse antiberlusconiane, nemmeno l’ombra. A credere ancora nella vittoria, nella riuscita del golpe bianco, fu Concita De Gregorio, direttore del quotidiano che fu di Gramsci ma anche, ma anche, di Furio Colombo. Titolando prima «L’intruso» (ovviamente Berlusconi), poi «Clima imbarazzante», le copertine dell’Unità nei primi due giorni del G8. Di più: il «clima imbarazzante» era illustrato da una farlocca costruzione di fotografie di Obama e Berlusconi mentre quest’ultimo agita la destra accompagnate dalla gaglioffa didascalia: «Tentativo di stretta di mano». A crederci è stato anche Antonio Di Pietro, il quale, indispettito perché la stampa estera stava marcando visita, ha voluto darle la sveglia pagandosi una intera pagina di pubblicità sul Guardian allo scopo di ricordare al mondo intero che bisogna abbattere quel nazista di Berlusconi. Poi c’è Veltroni. Un caso umano. Volendo, chissà, oscurare il Cavaliere o far presente d’essere ancora in circolazione, s’è presentato all’Aquila accompagnato da George Clooney. Faceva pena, Uòlter, muoveva a compassione nel mostrare il volto umano e meschinello dell’antiberlusconismo. Una qualche paparazzata l’ha comunque rimediata, ma lontano chilometri sia dal suo idolo, Obama, sia dall’«esponente dello schieramento politico a noi avverso». Ed è interessante notare che dello struscio aquilano Repubblica ha pubblicato solo uno scatto dove Clooney appare senza Veltroni. Forse per carità di patria o forse per marcare l’imbecillità della trovata.
Non è esattamente nello spirito decoubertiano dichiarare che tra la vittoria di Berlusconi e la disfatta dei congiurati mi rallegra più quest’ultima. Ma questo mestiere faccio, il giornalista. E aver dovuto registrare il successo del giornalismo genere lavandaia, il successo di una campagna scandalistica partigiana, basata sul nulla eppure accompagnata da tonnellate di sussiego, di ipocrisia, di menzogne, di sottintesi e di lezioncine di buona condotta morale, mi avrebbe amareggiato più del consentito.

Ho sempre pensato, e lo penso da quarantatré anni, che alla fine il buon giornalismo fa sempre aggio su quello cialtrone, sensazionalistico e ricattatorio. La battaglia dell’Aquila me ne ha dato, ce ne ha dato, ancora una volta conferma.

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