Un nonno tra i rimpatriati italiani «Tornare? Ma se non c’è più nulla»

RomaDopo sessant’anni sotto il sole dei Caraibi un cappotto può proteggere dal freddo. Non dal ricordo del freddo. E meno che mai ti può tenere al riparo dalla paura dell’incertezza. Per Francesco Nocera, già ribattezzato dai media il «decano degli italiani di Haiti», il rientro sul suolo natio ha un sapore troppo amaro. Tanto amaro da prosciugare fino all’ultima goccia di speranza. «Tornare laggiù? E perché? È tutto distrutto; non c’è più niente». Queste le prime parole di Francesco, 87 anni, mentre entra nella foresteria dell’Aeronautica militare di Ciampino. Il Falcon che portava a casa i primi 13 italiani è atterrato nel secondo scalo capitolino poco dopo mezzogiorno. Il pubblico e il privato si confondono negli occhi di Nocera. Parla di sé ma anche dell’isola e dei suoi abitanti. «È un Paese distrutto: chiese, scuole, ospedali. Tutto - racconta l’uomo di origine napoletana e titolare di un’attività commerciale nell’isola caraibica -. La nostra casa è solo lesionata, ma il negozio è distrutto. Se anche ricominciassi a lavorare, chi verrebbe a comprare? Non ci sono più soldi nell’isola e chissà per quanto tempo mancheranno».
Tra i primi a scendere dal Falcon anche Cristina Impieri che prima di abbracciare i parenti venuti a prenderla ha ancora la forza di raccontare: «In un minuto è cambiata la vita di tutti». Con Cristina, funzionaria Onu, a bordo del Falcon c’erano anche il padre Bruno, il marito Misha Berlinshi, il piccolo Leonardo di soli dieci mesi (che controllava con lo sguardo Pites, il gatto di casa, rimpatriato anch’esso).
Come spiega Luca Panozzo, comandante della missione che ha riportato a casa i nostri connazionali, erano tre i nuclei familiari da trasferire in Italia. Oltre a quelli della Imparato e di Nocera (rientrato con la moglie Rosa e la parente Rosaria Di Fede) a bordo del Falcon c’era anche Michela Macchiavello, cooperante, con il marito Kobbie Nudie Yeboah e il figlio Nabi Kweku (due anni). Chiudono l’elenco dei rimpatriati Matteo Menin, volontario Onu, e il piccolo Alessandro Federik, accompagnato da Diane Fabiani, in stato di gravidanza. La mamma di Alessandro, Fiammetta Cappellini, operatrice umanitaria dell’Avsi (l’organizzazione non governativa che si occupa di adozioni a distanza), non ha voluto lasciare Haiti, dove vive con il marito, come ha spiegato a Ciampino la madre Antonietta. «Fiammetta - racconta la nonna del piccolo Alessandro - non è voluta rientrare. Ci ha detto che il suo posto è lì e all’inizio non voleva neanche far partire il suo bambino, dal quale non si separa mai. Poi, ieri, in lacrime, ci ha detto che Alessandro non poteva rimanere lì perché la casa è inagibile e lui in queste notti ha dormito in auto. Ora siamo contenti di riabbracciarlo».
Lo stesso spirito di servizio della Cappellini anima il funzionario Onu Matteo Menin, uno dei sopravvissuti dell’hotel Cristopher. «Appena posso torno laggiù - spiega Matteo - a dare il cambio ai miei colleghi rimasti sull’isola».


La nonna del piccolo Alessandro, come tutti gli altri parenti degli italiani rimpatriati, erano carichi di buste piene di cappotti, maglioni e cappelli di lana. La prima necessità era ripararli dal freddo. Per difendere i piccoli Alessandro e Leonardo dal ricordo della tragedia vissuta ci vorrà, invece, tempo.

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