Nord-est, dove l’«impresa» è non licenziare

Sulla porta dell’ufficio di Paolo Trovò, imprenditore di Marghera che si prepara a diventare il numero due degli industriali veneziani, per anni è stato appeso un cartello evangelico: «Bussate e vi sarà aperto». Funziona così nella galassia delle aziende del Nord-est, per qualsiasi necessità i dipendenti si rivolgono direttamente al titolare. «Siamo una specie di famiglia allargata - dice Trovò - e qui non c’è mai stato un sindacato». Ora, a sentire i richiami dei vertici della Chiesa, Trovò si sente un precursore con quella frase di Gesù.
Le parole del cardinale Angelo Bagnasco piovono pesanti sugli imprenditori bastonati dalla crisi. In troppe zone d’Italia si licenzia senza pensarci troppo, «talora in tempi e modi alquanto sbrigativi, come se si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra». Il porporato faceva eco al monito del Papa a Cassino che aveva invitato a trovare «valide soluzioni alla crisi occupazionale». Appelli che arrivano pochi giorni dopo che tre imprenditori veneti si sono tolti la vita, ossessionati dall’idea di dover lasciare a casa qualche dipendente. Come ha raccontato una signora che conosceva uno dei suicidi, «per lui l’azienda era tutto. I dipendenti erano come la sua famiglia».
Il dramma dell’imprenditore che resta senza ordini e quello del dipendente che resta senza lavoro. La crisi che preme e i richiami a non seppellire i residui di umanità. Come venirne fuori? «Se si trascura l’umano tutto si disfa», dice il veronese Remigio Lucchini, fondatore della Ici caldaie, gruppo con 350 dipendenti e 80 milioni di fatturato. Alla Ici affrontano la crisi coinvolgendo i lavoratori. Incontri sul significato del lavoro. «Noi l’abbiamo organizzato un sabato fuori orario - racconta Gaetano Carcano, direttore generale di Verona Lamiere, una delle società del gruppo -. C’eravamo tutti, compresi sindacalisti e dichiarati marxisti. E il dover dare ragione del perché vale la pena reagire e creare anche adesso che tutto sembra squagliarsi, è stato per me un gusto nuovo nell’affrontare il lavoro. Per le due ore di incontro non c’è stato un brusio. Era chiaro che dalla crisi usciamo solo se ognuno affronta con più serietà, responsabilità, creatività quello che è chiamato a fare». Lucchini ha dovuto mettere in cassa integrazione a turno decine di operai. «Non escludo di ridurmi lo stipendio - dice Alberto Zerbinato, uno degli amministratori delegati di Ici - se volevo la paga fissa sarei un bancario. Ma noi facciamo di tutto per non lasciare nessuno senza lavoro. Certi clienti ci impongono prezzi appena superiori al costo industriale: una volta non avremmo accettato perché per noi è quasi una perdita, ma almeno è garanzia di lavoro». «L’importante è che chi deve stringere la cinghia non resti solo - ricorda il professor Angelo Ferro, presidente dell’Unione cattolica imprenditori e dirigenti (Ucid) -. Le parole della Chiesa sono importanti. Così ai nostri quattromila soci suggeriamo di non distribuire utili ma di reinvestirli in azienda e di partecipare alle iniziative della Caritas a favore del microcredito e della microimprenditoria. Davanti alla crisi facciamo scattare la solidarietà».
Marco Montagna, titolare di una grande impresa di costruzioni, ex numero uno di Confindustria Pesaro ora presidente del «Club libera impresa» della Compagnia delle opere, non riduce il richiamo dei vescovi a problema morale. «La prima cosa che percepisce un imprenditore che fa un’esperienza cristiana è che le persone attorno a lui non sono incidenti di percorso o semplici risorse, ma uomini che il Padreterno gli dà. Quindi facciamo anche l’impossibile per salvaguardare il loro lavoro: pochi giorni fa ho rifiutato l’offerta del sindaco di sponsorizzare il Basket Pesaro, sarebbe stata una grande pubblicità ma prima devo pensare agli stipendi. Però le parole di Bagnasco mi sembrano troppo dure. Conosco migliaia di imprenditori e pochissimi pensano ai dipendenti come zavorre, nemmeno negli Stati Uniti dove possono licenziare senza pensarci troppo».
Concorda Luciano Anceschi, amministratore delegato della Tria spa di Cologno Monzese, fabbricante di macchine utensili con calo degli ordinativi attorno al 50 per cento, anch’egli del Club Cdo libera impresa: «La cassa integrazione è inevitabile se non c’è lavoro. Abbiamo scelto di lavorare quattro giorni e chiudere il venerdì: sono decisioni che nessuno prende a cuor leggero, diffondono un senso di precarietà, ma mi stupisco del puntiglio di chi tiene duro per orgoglio perché il mercato non fa sconti, bisogna essere realisti. Per questo è importante che gli imprenditori non siano lasciati soli ma aiutati a guardare tutti i fattori in gioco nella realtà». Anche un «grande vecchio» dell’imprenditoria veneta, l’ottantasettenne Aldo Tognana (ceramiche e porcellane), ex capo partigiano e memoria storica dell’Ucid, riconosce che «i licenziamenti sono l’ultima spiaggia. Non siamo contenti di perdere collaboratori che da noi hanno imparato un mestiere.

I dipendenti non sono numeri ma collaboratori, conosciamo le loro famiglie. E anche quelle di molti immigrati, che sono tra i meno protetti. I regolari hanno la cassa integrazione ma quelli che lavorano in nero sono privi di assistenza. Lo Stato deve ricordarsi anche di loro».

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