Il peggio, dice, è la «deriva culturale» che procede «indisturbata come una metastasi». Emanuele Felice, a 42 anni ordinario di Politica economica all'Università di Pescara, abruzzese di Vasto, ha scritto almeno un paio di libri importanti sul Mezzogiorno: Perchè il Sud è rimasto indietro del 2013; Il Sud l'Italia l'Europa, di poche settimane fa (entrambi sono pubblicati dal Mulino).
Professore, di che deriva parla?
«Parlo di chi spiega i problemi del Mezzogiorno partendo da una autoassoluzione di principio. È sempre e tutta colpa degli altri, di chi ha rubato le ricchezze del sud, di chi ha tolto ai meridionali la possibilità di crescere autonomamente. È il meccanismo mentale che in questo momento prevale nell'opinione pubblica del Meridione e che arriva fino ad università e mondo intellettuale. Il bello è che questo è solo un aspetto della gigantesca auto-assoluzione nazionale».
Che cosa intende?
«Pensi al populismo di governo: la colpa della crisi e del declino non è degli italiani e dei loro errori, ma di qualche forza esterna: i tecnocrati europei, l'euro, la finanza internazionale, la Merkel. Da questo punto di vista e per la prima volta l'identità del Sud si è saldata a quella nazionale. E la personificazione del fenomeno è Salvini che ha abbandonato l'ideologia nordista conquistando il Sud».
Lei però in passato è stato molto duro anche con la sinistra.
«Nel Sud il fenomeno più recente è il fallimento del Pd e di Renzi. Hanno governato l'Italia e le Regioni del Meridione. Ma nel Sud il «rottamatore», che del Mezzogiorno aveva evidentemente un'idea tutto sommato vaga, non ha affatto rinnovato la classe dirigente, a cui è legata buona parte del problema meridionale. Anzi. Per dirne un paio, ha fatto eleggere il figlio di De Luca in Campania, la figlia di Cardinale in Sicilia. Ha governato con i vecchi «cacicchi», come li chiamava Gaetano Salvemini. Da questo punto di vista un caso interessante è quello dell'Agenzia per la coesione territoriale».
Perchè?
«I governi precedenti l'avevano pensata come organismo di coordinamento e programmazione della spesa europea. Renzi l'ha fortemente depotenziata, di fatto riducendo il suo ruolo a quello di controllore contabile di quello che fanno le Regioni, che si muovono ancora con le vecchie logiche».
Dopo Renzi, però, è arrivata l'ubriacatura grillina, che forse è perfino già finita.
«Nel Meridione i grillini sono nati proprio dal fallimento del Partito Democratico e della sua classe dirigente. E le proposte dei Cinque Stelle, basta pensare al reddito di cittadinanza, sono basate su una ridistribuzione immediata di risorse che salta i livelli intermedi. Oggi il Sud avrebbe bisogno di interventi incisivi e complessi gestiti da una vera classe dirigente: infrastrutture tecnologiche, investimenti sulla scuola, un miglioramento nella qualità dell'amministrazione pubblica. Ma dove le classi dirigenti falliscono si apre lo spazio per leader che basano la loro ascesa su un rapporto diretto con il popolo. Non è un fenomeno solo italiano».
Cioè?
«Lo si vede anche in America. È un fenomeno complessivo in cui è anche la stessa narrazione che le classi dirigenti fanno della società a finire sotto accusa. Un tempo i ceti bassi puntavano a impadronirsi della cultura delle èlite.
Poi, con il blocco dell'ascensore sociale e il sostanziale ridimensionamento delle speranze di crescita economica, viene messa in discussione tutta la cultura vista come cultura di pochi: la storia come è raccontata dagli storici, l'economia così come è studiata dagli economisti. Maggiore è il risentimento, peggiore si presenta il fenomeno. È l'Italia da questo punto di vista è un caso di scuola: nell'Unione Europea e insieme alla Gran Bretagna è il Paese con la mobilità sociale più bassa».
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