Nori si fa in tre per portare a spasso i lettori

«I quattro cani di Pavlov» è un libro allo stesso tempo tradizionale e sfuggente dotato di humor nero

Nori si fa in tre per portare a spasso i lettori

La maniera più semplice di spiegare ai lettori del Giornale che libri siano quelli che Paolo Nori va pubblicando da qualche anno, è di dire che se fossero film, Massimo Bertarelli darebbe loro un voto intermedio, forse «5». Non lo zero tenuto da parte per le opere appartenenti all’orizzonte cinematografico alieno e per Bertarelli truffaldino degli Jodorowsky, dei Paradzanov o degli Antonioni, ma «5», il voto concesso alle pellicole che hanno almeno provato a farsi benvolere, a meritare una pur flebile cittadinanza.
Questa implicita aspirazione alla «normalità» può essere ricondotta a due fattori. Per cominciare, i romanzi di Nori non cadono dal cielo, anzi: nascono dal convergere di stili ampiamente riconosciuti e ancora influenti (i nomi di Sanguineti e di Mastronardi, ovviamente sfrondato del dialetto, sono i primi a venire in mente). Il secondo aspetto «tradizionale», invece, è dato dal fatto che se ci si limita al singolo paragrafo, Nori può essere considerato uno scrittore leggibile, nel senso di leggibile da tutti; i guai cominciano quando si infilzano più paragrafi sullo stesso spiedo. Allora si smette di vedere il tema, non si capisce di cosa parli il romanzo, o si capisce ma non si comprende a che scopo le informazioni siano espresse, veicolate, scritte.
Prendiamo per esempio la sua ultima prova, I quattro cani di Pavlov (Bompiani, pagg. 210, euro 14,50). Ricostruirne la trama è un’impresa forse inutile, ma non è vero che in essa, come recita uno dei tanti passi autoreferenziali del volume, «non succeda niente»; che a differenza dei tradizionali romanzi d’avventura, dove il lettore corre di evento in evento, qui passi il tempo a girarsi i pollici nella speranza che un evento, almeno uno, compaia infine sulla pagina. Indubbiamente quelli di Nori sono antiromanzi, ma se essi si distinguono dai Tre moschettieri (ai quali si attribuisce, di certo per scopi derisori, la qualifica di «opera mondo») è che in Dumas le cose, brave cortigiane, si guardano bene dal succedere: al contrario si fanno aspettare, desiderare, e se proprio ogni tanto devono succedere generano subito una nuova attesa. I moschettieri devono acconciamente «mancare» i famosi dodici fermagli di diamanti, perché se li recuperassero troppo in fretta il racconto andrebbe subito a farsi benedire.
Ora, nei romanzi di Nori succede moltissimo; inoltre questi accadimenti non sono «orientati». Non adombrano: piuttosto si susseguono, spesso si snocciolano. La mancanza, questa benzina senza la quale la macchina del romanzo non si muove, è rinvenibile solo nel passato. Una suspense rivolta al passato, non nel senso del mistero bensì in quello dell’imperfezione, dell’incompiuto, della scommessa mancata. Non a caso i due moduli statisticamente più frequenti nei Quattro cani di Pavlov, l’aneddoto e la rimostranza, sono entrambi retrospettivi.
Naturalmente il volume contiene dell’altro: del buon humor nero, una spiritosa divisione in paragrafi mutuata al Wittgenstein del Tractatus, la presenza di tre voci («il Singolo», «il Doppio» e «il Triplo») che sembrano parodiare le teorie di Bachtin.

E il titolo, al pari degli altri titoli di Nori allegramente incisivo e fuori sesto. Del resto, non sembra peregrino osservare che l’impossibilità di etichettare a ragion veduta e la cura nel rendere giustizia agli aspetti incompiuti del passato sono due facce di una sola medaglia.

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