La normale sfida al terrore

La normale sfida al terrore

Qualche giorno fa su un quotidiano era riportata la carta geografica del nostro pianeta, e con i colori erano evidenziate le regioni a rischio. Non c’era parte della Terra che non fosse ritenuta più o meno rischiosa.
Non deve sembrare paradossale ma, se ci muoviamo da una zona a rischio a un’altra che è altrettanto rischiosa, in realtà non incorriamo in nessun nuovo pericolo. Non siamo più sicuri in Italia, come nel resto dell’Europa, negli Stati Uniti come nel Sud America anche se non sono le stesse ragioni ad alimentare il conflitto. Non prendiamo in considerazione la pericolosità del Medio Oriente o dell’Africa che è drammatica cronaca quotidiana: insomma, in ogni angolo della Terra c’è un incendio in cui è a rischio la nostra incolumità.
Neppure deve sembrare paradossale il fatto che, se si vive in un diffuso sentimento del pericolo, è inevitabile abituarsi ad esso e, quindi, non avvertire una particolare situazione d’emergenza che ci sovrasta. Ecco, allora, che gli appelli dei governanti alla normalità, a una condizione di vita da continuare a svolgere come se nulla di particolare ci accadesse intorno verranno facilmente accolti dalle popolazioni.
D’altra parte, chi ha seguito in questi giorni le interviste fatte in seguito agli attentati londinesi o a quello di ieri che ha colpito un celebre luogo di vacanza, avrà ascoltato la gente affermare che avrebbe comunque continuato a prendere la metropolitana nonostante tutto, perché non avrebbe avuto altro modo per recarsi al lavoro. E perfino i turisti di Sharm el Sheikh intendevano continuare le loro vacanze e molto probabilmente ritornare ancora in quelle località del Mar Rosso, nonostante tutto. In fondo, non c’era già stato recentemente, proprio là, un attentato terroristico che aveva massacrato due nostre giovani connazionali?
Se, dunque, la normalità, la continuità delle proprie abitudini sono da considerare il miglior strumento per fronteggiare l’attacco terroristico, si possono rassicurare i fautori di questa tesi che normalità e abitudinarietà non verranno meno. Perché non potrà essere diversamente.
Proviamo, invece, a ribaltare il discorso e ritenere che proprio l’accettazione della normalità del pericolo sia un indice di spaventosa debolezza e di inarrestabile declino della nostra civiltà libera e democratica.
Mi permetto di scomodare il filosofo tedesco Oswald Spengler che nel suo celebre libro Il tramonto dell’Occidente sosteneva che le civiltà declinano quando non reagiscono ai pericoli esterni che le minacciano, quando ritengono di essere sufficientemente forti da non dovere ricorrere alla forza perché considerano la minaccia esterna nulla più che una contingenza non in grado di modificare l’assetto sociale esistente. Questa illusione l’Occidente la visse più volte: segnò la fine della civiltà greca, poi dell’Impero romano, di Carlo Magno e della sua Europa, della società dei Comuni, delle signorie eccetera eccetera.
Spengler individuava come costante da una parte questa illusione di una civiltà di continuare a vivere nella sua potenza, dall’altra la presenza di società, di gruppi carichi di simbolicità e di fede in apparenza irrazionale e barbarica. Questi ultimi finivano immancabilmente per annientare la civiltà che si riteneva più forte e in grado di dominare il pericolo continuando a vivere come se nulla ci fosse di tanto rischioso da poter condizionare la sua normalità.


Se oggi, di fronte alla minaccia islamica, provassimo a riflettere sul pensiero di Spengler? Se invece di invocare la normalità ci convincessimo di essere entrati in una fase storica di assoluta precarietà, di minaccia reale della nostra civiltà libera e democratica? Se volgessimo indietro lo sguardo e riflettessimo sul tramonto di civiltà non meno grandiose della nostra e cercassimo di capire che le ragioni della loro fine potrebbero essere idealmente simili a quelle che incombono sulla nostra? Se avessimo l’umiltà di accorgerci che i principii su cui si basa la nostra civiltà - la tolleranza, la libertà, la democrazia - oggi sono usati contro di noi? Se mettessimo da parte la presunzione di essere così potenti da non dovere usare la nostra potenza per difenderci?

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