nostro inviato a Torino
Rispondere alle canne di fucile con grandi canne di erba. Partire sì, ma non per il Vietnam: meglio un lungo viaggio nelle allucinazioni del fumo amico. È l'eterna utopia delle tribù hippie, che quarant'anni fa esplose e dilagò in tutto il mondo sulle note di Hair, musical di Broadway divenuto manifesto esistenziale della generazione ribelle.
La storia è semplicissima, i messaggi taglienti e iconoclasti. Conviene riassumere, per sapere di che si parla. In un gruppo di giovani figli dei fiori, più dell'erba che dei fiori, arriva improvvisamente la cartolina del precetto militare. Il Vietnam chiama, loro non hanno alcuna voglia di rispondere: preferiscono continuare la personalissima epopea newyorkese di libertà, declinata in tutti i suoi risvolti più naturali e naturistici, sesso e droga compresi, o forse prima ancora. Tutti bruciano la cartolina, in un rito tribale che urla il provocatorio no alla società corrotta e guerrafondaia. Tutti tranne uno: Claude proprio non ce la fa. Troppo forti i condizionamenti di patria e genitori. Lui partirà, lui obbedirà. E via con lo struggente saluto alla compagnia, cantando tutti assieme il celebre coro di Let the sunshine in.
È l'altro 68: non quello che i nostri ragazzi leggono sui nuovi libri di storia, stagione discutibile e discussa, comunque irripetibile per impegno, cambiamento, conquista. Questo è il 68 meno propriamente politico, più vagamente visionario, dei gruppi che sognano l'esistenza allo stato brado, senza regole e senza convenzioni, in un provocatorio ritorno alle pulsioni primitive dell'essere.
È il celebre 68 di Hair. Il coloratissimo e intramontabile 68 che torna ora nei teatri d'Italia. L'operazione è coraggiosa: musiche rinfrescate da Elisa («per me, una vacanza dalle mie composizioni»), ma soprattutto attori giovanissimi, sedici in tutto, selezionati spietatamente tra Usa e casa nostra con un meccanismo al vago sapore d'Amici.
Il risultato? Loro, promettenti. Le musiche, a tratti molto emozionanti. Ma il discorso più serio e più profondo riguarda l'opera. Oggi come oggi, non un'opera qualunque.
Vietato ai minori di cinquant'anni: così andrebbe proposto, il nuovo Hair in salsa post-moderna. La precauzione sarebbe doverosa, perché la chiave per entrare nello squinternato e onirico mondo di quelle tribù sta solo nelle mani di chi il 1968 in qualche modo l'ha vissuto. Cioè di chi questo musical è in grado di contestualizzare - e chiedo perdono per il verbo - con un semplice ricordo, riavvolgendo magari in un guizzo di malinconia il lungo nastro della propria vita.
Non a caso, la proposta nasce intenzionalmente come omaggio e celebrazione per i quarantanni di quellanno, anniversario che tra parentesi già a febbraio comincia a provocare i primi segni di sazietà. Ma cè un ma. Bisogna chiedersi che cosa mai possa cogliere un pubblico molto giovane da un simile affresco. Metti che un ragazzo d'allora, oggi ormai padre maturo, inviti a teatro il figlio diciottenne. «Vieni - gli dice -, ti porto a vedere comeravamo noi alla vostra età, vuoti e smidollati che non siete altro».
Il figlio che eventualmente si lasci trascinare avrà un magnifico quadro di suo padre e dei coetanei dell'epoca. Costoro, in Hair, sono tipi dallo sguardo stralunato, che rifiutano tutte le scocciature della vita, lanciando slogan liberatori di questo tenore: «Ragazzi, alzate le vostre canne e splendete», «Ragazzuoli, questa sera roba pura al cento per cento», «L'erba serve a deformare il tempo», e via con l'inevitabile richiamo sulfureo al sesso libero, alla pace, alla libertà. Libertà di farsi i casi propri. Libertà di farsi.
Così è il '68 di Hair, quando venga riletto senza una minima conoscenza del tema e del periodo storico: una messa cantata, molto profana e parecchio blasfema, alla divinità hippie della trasgressione totale. E dico blasfema non per fare del gratuito bacchettonismo: l'opera propone davvero una comunione, quando il partente Claude offre a tutti una pasticca. «Prendete, questo è il corpo e il sangue di Cristo... ».
Se il diciottenne d'oggi ha due dita di cervello, tornando a casa non potrà esimersi dal porre al simpatico papà una semplicissima domanda: «Scusa, padre mio: ma perché quando sballiamo noi con l'ectasy in discoteca, il sabato sera, la fate tanto lunga?».
No, non è questa la storia che possiamo esibire con orgoglio alle nuove generazioni.
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