Il nostro futuro geneticamente modificato

L'Unione europea ha dato il via libera agli ogm e ciò nonostante qui da noi si continua a demonizzarli. Cos'è, preveggenza o demenza?

Isteria, caro De Dominicis. Ottusa isteria ideologicamente nutrita. Sono quindicimila anni, uno più uno meno, che l'uomo si dà da fare per mettere le piante al proprio servizio, impresa da sempre benedetta, mai osteggiata. Impresa che non ha mai conosciuto soste perché la popolazione del globo s'è continuamente accresciuta (i massimi studiosi di demografia ritengono che 10.000 anni or sono eravamo 8 milioni; nel primo anno dopo Cristo 160 milioni; nel Mille, 254 milioni; nel 1900, un miliardo e mezzo. Da allora il tasso di crescita s'è fatto frenetico e ora la popolazione mondiale aumenta annualmente di 70-80 milioni di individui) e bisognava, come ancora bisogna, sfamarla. Da sempre, dunque, l'uomo ha forzato la selezione naturale per sfruttare i geni delle piante a sé utili operando delle mutazioni, creando ibridi, favorendo e sviluppando caratteri nuovi. Prenda la vite: allo stato naturale è dioica, ovvero c'è la pianta maschio e quella femmina, con grappoli sparuti e acini non più grandi di un pisello. Ne abbiamo tratto più di tremila varietà, tutte ermafrodite e con gli acini e i grappoli che conosciamo. La produzione di chicchi d'una pianta di cereali è almeno cento volte quella della sua antenata selvatica e a farla così generosa non ci ha pensato la buona natura, ma l'uomo. Come è noto, il mais ha permesso lo sviluppo delle civiltà incas, maya, azteca, olmeca e tolteca. Ebbene in natura il granoturco ha pochi semi protetti che basta un colpo di vento a disperdere (essendo predominante il gene della sopravvivenza).
Incrocio dopo incrocio, segregazione dopo segregazione, l'uomo ha mutato il mais in una pianta dal seme nudo e tenace che senza la sua mano non è, perché vulnerabile e avara nello spandere i propri semi, in grado di sopravvivere. Lasciata allo stato selvatico si estinguerebbe in una mezza dozzina di stagioni. Insomma, caro De Dominicis, non un vegetale del quale ci cibiamo, nemmeno la lattuga, è «naturale» ovvero conforme alla sua specie in natura. Anche perché se così fosse, non ce ne potremmo cibare o, nel migliore dei casi, potrebbero farlo solo pochi privilegiati.
Il fine delle ultime ricerche e degli esperimenti per modificare geneticamente una pianta è di creare ibridi più resistenti. Più resistenti al caldo o al freddo, alla siccità o all'eccessiva piovosità, ai parassiti e alle malattie. Ibridi che riescano a fruttificare, con rese elevate, anche in terreni poveri o che non pretendano l'uso massiccio di diserbanti, di pesticidi, di fertilizzanti. Tutto ciò per promuovere e favorire l'agricoltura in regioni che, per natura geologica o motivi climatici, non ne risultavano vocate. In due parole, per concorrere a sfamare il sempre più affollato pianeta. No global, verdi e verdastri, intellettuali e intellettualesse a dieta macrobiotica e qualche gonzo che non appartiene a quella cerchia ma ne è suggestionato, replicano che chi produce sementi ogm se le fa pagare e ciò è politicamente scorretto; punto secondo che gli organismi geneticamente modificati fanno male, portano dritti dritti al cimitero. Questa seconda affermazione è smentita da tutte - tutte - le massime autorità sanitarie mondiali, dall'onusiana Oms in giù. La prima è pura ipocrisia: le sementi hanno sempre avuto un prezzo: diretto (palanche) o indiretto (parte del raccolto non messo in vendita ma conservato per farne, appunto, semenza). Costano di più di quelle non ogm? Se uno non deve poi irrorare il campo di pesticidi è già un affare. Se rendono il doppio, è un affarone. Ma vallo a far capire agli isterici.
Paolo Granzotto

Ps: che siano pro o contro gli Ogm, i fedeli dell'Islam devono ottemperare a quanto intima la IX sura del Corano, la quale recita: «Annuncia a coloro che non credono un doloroso castigo. Quando siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi associatori, ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati».

E scusate se è poco.

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