Milano - Caro Walter Novellino, ha visto la scena tra Ibrahimovic e Mancini?
«Naturalmente e sono molto solidale con il mio collega. Non faccio il moralista e sostengo questa tesi: qualunque frase abbia pronunciato Ibrahimovic, non aiuta né il suo allenatore né il suo gruppo. In verità è successo anche a me».
Che cosa, scusi?
«A Cagliari, dopo 20 minuti, sullo 0 a 2, ho sostituito Lazetic che l’ha presa male. Di solito io mi comporto così: sul momento faccio finta di niente. Poi, il giorno dopo, con la testa fredda, vado dall’interessato e chiarisco. Così ho fatto con Lazetic. Sono pronto anche a scusarmi, perchè sostituire uno dopo 20 minuti non è il massimo della vita, me ne rendo conto ma lo faccio per una causa nobile».
Lei ha la spina nel fianco di Rosina...
«Certo. E anche qui io vivo in una casa di vetro, non ci sono segreti o misteri. Per giocare col mio modulo abituale, il 4-4-2, ho bisogno degli esterni: grazie al cielo e al mio presidente Cairo, dal mercato di gennaio, mi sono arrivati Diana e Pisano. Così una mezza punta deve restare fuori, a Cagliari ho preferito Di Michele a Rosina ma non per fatto personale. Sono andato in tv, ne ho parlato alla trasmissione di Italia 1, forse ho usato una espressione infelice, ma sulle motivazioni di fondo non ci sono dietrologie da fare».
Caro Novellino, lei da calciatore era uno fumantino con gli allenatori...
«Si sbaglia e di grosso. C’era più rispetto ai miei tempi. Prenda Liedholm: bastava una sola parola fuori luogo e ti appendeva al muro. Una volta mi ha lasciato fuori squadra e sapete come lo motivò? Mi disse: “tu guardi canali 1 e canali 2, tu devi guardare solo il campo”».
Altre differenze?
«Non c’era lo star system, al centro del quale si sentono oggi i calciatori. I quali sanno benissimo di avere cento telecamere puntate sulla loro attività eppure non evitano neanche il più piccolo gesto. Mancano inoltre interventi autorevoli».
Tipo?
«Una volta il mio capitano, Gianni Rivera, mi prese per un orecchio e mi disse: qui al Milan non si fa così. Fu una lezione di vita».
È una questione anche di educazione, allora?
«Non solo. Credo ci sia dell’altro che attiene alla traiettoria stessa della carriera di un allenatore. Quando sei in alto, va tutto bene, nessuno si azzarda a contestare una tua scelta, anche se ordinassi il cappuccino cinese. Quando invece sei in ribasso, allora cambia tutto. E questo lo dico non solo pensando all’episodio di San Siro o di Cagliari per quel che riguarda il Toro. Lo dico perchè le cronache del nostro calcio sono piene di esempi negativi».
Come categoria, siete disposti a un pizzico di autocritica?
«Certo. Lo dico spesso ai miei quando parlo di una partita e delle relative scelte. Non sono un mago, posso anche sbagliare valutazione ma lo faccio nell’interesse esclusivo della mia azienda».
Che non se la passa bene dopo i 3 schiaffi di Cagliari...
«Cadere dopo una striscia promettente di otto partite procura molto dolore. Ma nel calcio bisogna avere la forza di rialzarsi subito, di reagire. Hanno scritto che Ballardini, l’allenatore del Cagliari, mi ha “incartato” la partita. Ho preso e portato a casa, accumulando la giusta rabbia per dimostrare al più presto che non è così».
Altra domanda: cosa possono fare le società per educare al meglio i calciatori ribelli?
«Io ho una fortuna, la fortuna di lavorare con un presidente come Urbano Cairo. Nel mio lavoro, sono sicuro di avergli dato meno di quel che lui ha dato alla squadra e al mio lavoro. La società è fondamentale.
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