Le nozze del secolo in stile internazionale

Brindiamo con soddisfazione e anche con una punta di orgoglio nazionale alle nozze bancarie del secolo (almeno finora e su scala europea). Si supera il circospetto «moglie e buoi dei paesi tuoi» e ci si affaccia sulla scena più ampia del mondo in cui viviamo. La dimostrazione concreta del movimento è quella di muoversi: altro che «campioni nazionali», altro che immobilismo difensivo di retroguardia. Il matrimonio consensuale fra la prima banca italiana, Unicredit, e la quarta banca tedesca, Hypovereinsbank (Hvb), mediante l'acquisizione della seconda da parte della prima e la conseguente fusione, vedrà la nascita di un nuovo colosso bancario paneuropeo. Un'operazione dell'ordine di 16 miliardi di euro, la più importante integrazione creditizia internazionale in Europa, basata su una strategia europea e con obiettivi mirati alle sfide competitive del mercato continentale e di quello globale.
Per iniziativa italiana e per merito di Alessandro Profumo, che sarà il capo esecutivo della holding nella quale confluiranno Unicredit e Hvb, si forma un gruppo con 700 miliardi di euro di attività, oltre 300 di raccolta, circa 126mila dipendenti in Italia, Germania, Austria, Polonia ed altri dieci Paesi dell'Est europeo oltre alla Turchia, e con più di 6400 sportelli in totale, al nastro di partenza. Quella di Unicredit è la risposta più incoraggiante mentre l'idea stessa di Europa (per i suoi e nostri errori) attraversa una crisi non superficiale e, d'altra parte, nel nostro settore bancario si consumano guerre difensive e statiche sul filo di Opa, contro-Opa e battaglie legali nel nome dell'italianità delle nostre banche (come per Bnl o AntonVeneta, rispetto alle scalate di soci «stranieri»).
Una grande banca italiana compie un salto di qualità strategico e culturale, proiettato in avanti e non indietro, con una visione positiva e dinamica dei problemi che incombono non soltanto sul comparto creditizio, ma sulla nostra intera economia: primo fra tutti quello del troppo basso grado di internazionalizzazione. Nessun rifiuto popolare, per quanto sacrosanto, di qualsivoglia «costituzione» europea, nessun aggiornamento o aggiustamento dell'agenda politica dell'euro e soprattutto del mercato unico, potrà infatti rimuovere il pericoloso ritardo con cui l'Italia affronta una questione così basilare per la nostra competitività. Sarà piuttosto l'economia reale e la sua indispensabile «ancella» (la banca, la finanza per le aziende, i risparmiatori, i consumatori) che scandiranno il ritmo del nostro recupero sulla strada obbligata dell'integrazione e della globalizzazione, che intanto procedono per forza propria.
Ecco perché la fusione deliberata ieri è di grande significato e avrà ripercussioni positive anche sul confuso stallo del cosiddetto «risico bancario»: che dovrà trovare, alla fine, sbocchi adeguati ai nostri veri e concreti interessi. Vale a dire una ripresa dei processi di razionalizzazione, integrazione e consolidamento del sistema creditizio, fermi da una decina d'anni dopo le prime scosse alla «foresta pietrificata» e la sua sostanziale privatizzazione. Qui, sotto la vigilanza della Banca d'Italia che ha dato via libera alla scelta di Unicredit, dovrà essere il mercato nel rispetto delle sue stesse regole a determinare le soluzioni più efficienti e competitive di cui abbiamo bisogno, dal punto di vista sia dei servizi bancari, sia degli orizzonti temporali di un riassetto strutturale tendenzialmente di lungo periodo.
In questo senso la stessa operazione Unicredit, attentamente disegnata a partire da uno scambio di azioni fra la banca italiana e quella tedesca (5 contro 1) e da un equilibrato assetto di governance fra amministratori di Piazza Cordusio, di Monaco di Baviera e indipendenti, è tutta da realizzare e i benefici economici attesi da una fondamentale decisione strategica non si avranno in un batter d'occhio.

Si pensi soltanto agli aspetti occupazionali, alle «pulizie di bilancio» che forse occorreranno in Hbv, alle sovrapposizioni di banche locali, controllate direttamente o indirettamente (come in Polonia attraverso Bank Austria) dalle due banche interessate alla fusione. Banche di antica storia guidate a un nuovo ruolo europeo di global player dall'iniziativa strategica italiana e sotto controllo italiano grazie a un management eccellente e alla lungimiranza dei suoi azionisti.

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