Nulla è più buono di un pane spezzato insieme

La donna davanti a me prende il pane dal centro della tavola, lo stringe al proprio corpo, e con un coltello, il suo, ne taglia una fetta, che mette tra la zuppa di verdure e il bicchiere di vino. Poi ripone la pagnotta dov’era, per me, per gli altri intorno a lei.
Negli ultimi anni capita sempre meno di partecipare a questo gesto di reale condivisione del cibo. Accade di ritrovarlo nelle aree rurali, o in montagna. Spesso, cambiando nazione, procedendo verso le culture slave, ho potuto osservare che le donne hanno un diverso modo di tagliare il pane: la lama procede dal petto verso l’esterno, non il contrario, come per gli uomini. Di solito si pranza in cucina, nello stesso ambiente dove il cibo viene preparato. Non c’è solitudine. La contiguità tra persone è viscerale, silenziosa, come quella tra cibo e essere umano. Quel che si ha nel piatto è quanto di più vicino al lavoro, al riposo, all’accumulo di energia. Il rapporto col cibo è fisico, famigliare, accorpante, privo di seduzione.
L’ultima volta che ho trovato - ahimé, sulla carta - una simile atmosfera, è stato in un’intervista allo scrittore israeliano Amos Oz. A un giornalista francese stupito dalle risposte concilianti in merito alla difficile convivenza tra Israele e palestinesi, Oz replicava: «Sono sposato da trent’anni, sono un esperto di compromessi». E raccontava come, la sera, lui e sua moglie mangiassero pane e formaggio davanti al deserto del Negev, e come questo momento fosse per lui epifania di pace, e riposo dalla fatica quotidiana nel kibbutz.
In contesti più borghesi, di rado si incontrano simili sensazioni. I cibi - cucinati in una stanza separata da quella dove si mangia - stanno davanti ai commensali come piccoli gratificanti doni, frutto non del lavoro, ma del denaro guadagnato. Il pane è davanti a ognuno già tagliato in piccole fette tutte uguali. Che frutta e verdura siano di stagione è un «valore aggiunto» alla cena, come in altri momenti dell’anno lo è servire frutti esotici. Lungi dal riposarsi, i commensali cercano nel piatto stimoli e curiosi contrasti di sapore. Sfuggire la noia diventa presto un’esigenza irrinunciabile, durante la quale si finisce col mangiare sempre un po’ più del necessario. La conversazione verte sempre su affari o mondanità.
Comportamento che si intensifica quando ci si ritrova al ristorante, snodo cruciale di tutto il parlar di cibo che ha colonizzato negli ultimi anni, con velocità impressionante, programmi televisivi, interi canali satellitari, scaffali di librerie: il cibo di cui oggi si ama parlare è principalmente quello mangiato fuori casa. Universo discorsivo che riesce a modificare addirittura la nostra percezione del paesaggio: esso si riduce a percorso enogastronomico, a un fermarsi per cantine e per trattorie. Diventa difficile, durante un pomeriggio nelle Langhe, poter immaginare che lì Fenoglio combatté realmente - nella carne e nel sangue - la sua «questione privata».
Il tasso di illusione in tutto ciò è altissimo quanto alienante. Nei café mundanes, nei bistrots, nelle trattorie di lusso come nelle enoteche, nei ristoranti segnalati, tutto viene - dall’arredamento alla forchetta, dal servizio al menu - teatralizzato per ottenere un effetto psicologico sull’immaginario del cliente. Mangiare fuori è puro entertainment, attività spettacolarizzata e nemmeno percepita come tale, se non dai gestori e dagli chef, che tuttavia, di contro, rimangono restii a pensare il rapporto con il cliente come a un contratto vincolante, seppur temporaneo.
Il pranzo, la cena, sono diventati così atti isolati dal resto della giornata. La pseudo-formalità di queste occasioni separa fisicamente le persone, affidando alla parola, che diventa regina, il compito di instaurare una vicinanza fragile, estetica, di godimento, salottiera, che si spegne al momento del saluto. Anche quando si va al ristorante per cercare - tramite una prestazione pubblica - l’appagamento di un desiderio o la cornice ideale di una storia d’amore, non si riflette mai abbastanza a quanto questo finisca per farci assecondare l’idea che quel desiderio, o quell’amore, sia «comprabile».
Anticorpi verso l’attuale, asfissiante logorrea culinaria si possono trovare nella trilogia Into their Labours di John Berger (costituita dai romanzi Le tre vite di Lucie, Gelka, 1992, Una volta in Europa e Lillà e bandiera, Bollati Boringhieri, 2003 e 2006), e nell’imperdibile, profetico saggio del 1989, Andare a pranzo fuori.

Sociologia della buone maniere di Joanne Finkelstein. Due autori che rimangono tra i pochi capaci di mostrarci, per dirla con Susan Sontag, che «quasi sempre la nostra maniera di apparire è il nostro modo di essere». Anche quando mangiamo.

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