La nuova Lega toglie l’elmetto e ora punta sulla diplomazia

da Roma

Fatti i conti e al netto di una cosmogonia che da semplice folclore è negli anni diventata parte della storia politica italiana, il Carroccio si ritrova oggi a essere il partito più vecchio del Paese. Alle spalle, infatti, ci sono quasi diciannove anni di storia, da quando il 4 dicembre dell’89 davanti a un notaio di Bergamo sei diversi movimenti autonomisti decisero di unirsi sotto la bandiera della Lega Nord. Davanti, invece, c’è la prospettiva di diventare una sorta di Democrazia cristiana del Nord o, per usare un’immagine che è stata più volte tirata in ballo, una Csu bavarese in salsa padana. Lo dicono i numeri delle ultime elezioni - che hanno certificato come il Carroccio non sia più un fenomeno «valligiano» ma strabordi pure in Emilia-Romagna, in Umbria e persino nell’alto Lazio - ma anche i toni e le parole d’ordine di quella che è ormai la quarta generazione leghista.
Resta il folclore, dunque, che per la base è ancora punto di riferimento e di aggregazione. Ma cambiano le prospettive. Non solo perché la Lega è più matura, ma pure perché negli anni il Paese ha prima accettato e poi raccolto molti dei suoi cavalli di battaglia. Così, quando il 20 maggio del 1990 il Carroccio si presentò per la seconda volta a Pontida e i suoi 800 eletti tra consiglieri comunali, provinciali e regionali giurarono fedeltà alla causa autonomista e alla Padania furono in tanti a liquidare l’evento come una boutade. A forza di riderci sopra una Pontida dopo l’altra, esattamente dieci anni e quattro giorni dopo - il 24 maggio del 2000 - pure la nuova giunta della regione Lombardia guidata da Roberto Formigoni si cimenterà in un giuramento simile. «Giuro di essere fedele - leggono uno dopo l’altro presidente e assessori - alla Lombardia e al suo popolo». A ridersela, in quell’occasione, deve essere stato soprattutto Umberto Bossi.
Ma la Pontida di oggi è diversa da tutte le altre perché segna per il Carroccio il passaggio all’età adulta. Resta Mario Borghezio a presidiare gli istinti più bassi e a dire chiaro ai «clandestini di merda» che «la Lega ce l’ha sempre duro» e che per loro è pronto «un biglietto di sola andata». Ma gli altri, tutti gli altri, hanno cambiato registro. Bossi per primo. Il 16 giugno del 1991, Pontida atto terzo, ne aveva avuto per tutti: per Giulio Andreotti («l’unico gobbo che porta sfortuna»), per Ciriaco De Mita («brutto anche di notte») e per Pino Rauti («stortignaccolo come il suo partito»). Così il 16 febbraio 1992, quando comizia sotto il tendone del Circo Roma affittato da Davide Orfei: «Ho visto la scritta Circo Roma e ho pensato: “Vuoi vedere che c’è in giro Andreotti». Nella Pontida del 2 giugno 1996, dopo la sbornia elettorale che aveva visto il Carroccio al 10,1%, via libera alla secessione: «Due governi, due parlamenti, due economie, due monete». Ieri, non si è visto niente di tutto questo e non solo Bossi, ma pure uno come Roberto Calderoli - che la pancia del Carroccio la vive e la conosce - ha scelto la via della prudenza.
Lega di governo ma non solo. Perché quando il 17 giugno del 2001 la pattuglia leghista si presenta sul «sacro» prato a soli sei giorni dal giuramento al Quirinale l’imbarazzo c’è e come. Giornali e tv hanno dato ampio rilievo al Bossi che promette di «essere fedele alla Repubblica». E lui è costretto a inseguire. Così, in compagnia del neo ministro della Giustizia Roberto Castelli (manca Roberto Maroni causa congestione) giura di nuovo a Pontida, ma questa volta sulla Padania. E avverte: «Al Quirinale ho giurato sì, ma da padano». Dall’Ulivo sono in tanti a chiedere che i due si dimettano perché «non si può giurare su qualcosa che non c’è». Che la storia è cambiata lo dimostra l’apertura di credito di Bossi, che chiede la collaborazione del Pd sulla riforma federalista beccandosi pure qualche mugugno dalla folla. E il fatto che dal centrosinistra nessuno punti oggi il dito contro il giuramento davanti «ai popoli del Nord».
Pontida, dunque, cambia volto. E lo fa per mille ragioni diverse che vanno dalla malattia di Bossi (che ne ha smussato gli eccessi caratteriali oltre che verbali) al successo elettorale del 13 e 14 aprile, passando per la nuova generazione di giovani che ormai si son fatti. Quando il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia paragona Pontida a «un incontro tra il Consiglio di amministrazione e l’assemblea dei soci» è chiaro che qualcosa sta cambiando. Che dalla clava si sta lentamente passando alla fibra ottica. Senza contare che oggi quelle battaglie tanto care al Carroccio hanno oltrepassato gli argini del Po, incassando il plauso anche di istituzioni tradizionalmente prudenti come il presidente della Repubblica o il governatore della Banca d’Italia. Che concordano sulla necessità di arrivare al federalismo fiscale.

Il Bossi di qualche anno fa, forse, avrebbe temuto un accerchiamento e avrebbe rilanciato su chissà quale tavolo per non farsi scavalcare. Il Bossi di oggi incassa soddisfatto. Ed è persino disposto a concedere all’opposizione il palcoscenico di cui è più geloso. Quello della riforma federale.

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