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La nuova linguistica mette a tacere Chomsky

In inglese, così come in altre lingue europee, la sintassi si basa sull’ordine delle parole (il soggetto precede il verbo, l’oggetto lo segue, ecc.), in latino invece c’erano i casi e così pure in finnico, dove se ne contano quindici. In molte lingue del Sud-Est asiatico per differenziare le parole si usano i toni: in cinese, a esempio, un monosillabo come ba può avere ben quattro significati. In alcune lingue amerindie ciò che noi esprimiamo in una frase o in un periodo viene compresso in un’unica, grande «parola».
Differenze palesi e in molti casi vistose, nonostante le quali si è seguitato a sostenere che le lingue sono sostanzialmente simili. Una delle idee più influenti sullo studio del linguaggio, infatti, è stata quella della «grammatica universale» che, come già scriveva Steinthal (1861), «non è più concepibile di una forma universale di costituzione politica o di religione». Enunciata per la prima volta nel Settecento, è stata rispolverata da Chomsky nel 1960 e ha dominato per molto tempo non soltanto nella linguistica, ma anche nella psicologia e nelle scienze cognitive. Anche studiosi non chomskyani parlano di «grammatica universale» come se fosse qualcosa di certo e assodato. Così, specie tra i profani, si è diffusa la credenza che tutte le lingue sono più o meno simili all’inglese, anche se con sistemi fonetici e vocabolari differenti.
Ma la realtà è molto diversa: «le lingue differiscono così profondamente fra loro ad ogni livello (suoni, grammatica, lessico e significati) che è difficilissimo trovare qualche singola proprietà strutturale da esse condivisa». L’uomo è l’unica specie vivente che possiede un sistema di comunicazione variabile a tutti gli effetti. Perciò «il fatto cruciale per comprendere il posto che occupa il linguaggio nella conoscenza umana non è la sua uniformità, ma la sua diversità». È quanto affermano due linguisti della nuova generazione, Nicholas Evans, della Australian National University, e Stephen C. Levinson, del «Max Planck Institute for Psycholinguistic», in un lungo saggio uscito su Behavioral and Brain Sciences. Le loro tesi hanno riscosso un ampio consenso, non solo da quanti, e non sono pochi, erano già sulla stessa linea, come Martin Haspelmath, uno dei creatori del Wals, e Michael Tomasello, esponente della New Psychology.
Ma finora il «manifesto» di Evans e Levinson non era uscito fuori dall’ambito accademico. Oggi invece viene riportato con grande evidenza su uno degli ultimi numeri di New Scientist (giugno 2010), la più nota rivista americane di divulgazione scientifica. La coverstory a firma di Christine Kenneally è dedicata interamente a demistificare ciò che Evans e Levinson hanno chiamato il mito dell’uniformità del linguaggio.

Ciò naturalmente colpisce al cuore la popolarità del chomskysmo, che specie in America non è mai stato attaccato frontalmente, e in realtà a guidare questa «riscossa della linguistica», come è stata chiamata, sono centri di ricerca europei e università come quelle australiane, oggi all’avanguardia nello studio di quelle lingue «esotiche» che hanno rivoluzionato il campo della linguistica.

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