La nuova sfida di Castellitto è tirare pugni (ma solo sul set)

Roma«Una dolcissima pernacchia al destino». È così che intende il senso di Alza la testa Sergio Castellitto, protagonista del dramma diretto Alessandro Angelini, il 18 in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma. Se con la vita non giochiamo mai da soli, ma con un baro, che si chiama sorte, il bravo attore, stavolta nel ruolo di Mero («cioè semplice, com’è il personaggio», commenta il regista di L’aria salata), ci dà dentro su un ring quale metafora esistenziale. E indossa pantaloncini da boxeur, lui, che operaio d’un cantiere nautico, s’intestardisce ad allenare il figlio Lorenzo (l’esordiente diciassettenne Gabriele Campanelli) perché meni e tenga la guardia sempre alta. «Interpreto un padre “femminile”, perché la mia donna, una ragazza albanese, madre del mio figliolo, mi ha lasciato. Sebbene trovi che ognuno debba mantenere la propria identità, ossia il padre deve fare il padre e la madre deve fare la madre, in ogni caso è giusto ammorbidirsi, non irrigidirsi di fronte agli imprevisti, diventando, da padri, anche un po’ madri. Il mio Mero cerca di educare il figlio alla battaglia della vita, attraverso lo sport», anticipa l’attore, che oggi batterà il ciak in Toscana, tra San Casciano dei Bagni e Contignano, dirigendo se stesso e Laura Morante nella spensierata commedia La bellezza del somaro, la cui sceneggiatura è frutto di un lavoro a quattro mani del regista e della moglie scrittrice, Margaret Mazzantini.
È invece una storia di redenzione quella narrata da Alessandro Angelini, che si sofferma sul finale tragico del proprio film. «Ho voluto inquadrare un padre che tenta, ma invano, di salvaguardare il figlio dai colpi bassi della vita. La vita, però, è imprevedibile e, qua e là, vari scricchiolii si avvertono. Il rapporto padre-figlio s’incrina, perché sulla scena compare un allenatore migliore del genitore; la madre, scomparsa, si rifà viva e una fanciulla farà scoprire l’amore a Lorenzo», svela il cineasta.
Il finale di Alza la testa, il cui titolo allude sia alla tipica incitazione volta a imbaldanzire i figli timidi sia a vedere, con occhi scevri da pregiudizi, chi si ha di fronte, è tragico (Lorenzo morirà in un incidente), tuttavia foriero di altre speranze. «A quaranta minuti dalla fine del film, mio figlio muore e faccio la più crudele esperienza, che possa toccare a un essere umano: sopravvivere al proprio figlio», commenta Castellitto, che per tirar pugni è salito sul ring d’una «palestrina proletaria, anzi, pasoliniana» di Ostia.
«Il mio è un personaggio proletario, come si diceva un tempo. Il suo unico capitale è il figlio... Si tratta d’un frustrato, a sua volta pugile dilettante. Per essere credibile, ho preso un allenatore di boxe, sport violento e armonioso, anzi, direttamente sensuale, con i corpi nudi e sudati di uomini, che si picchiano», argomenta Sergio, «La dolcissima pernacchia alla vita» di cui parla l’attore e regista classe 1953 è, di fatto, «quell’occasione di rileggere gli errori della propria vita, per migliorarsi. Essere rigidi, imporsi, non porta da nessuna parte. Occorre essere, invece, morbidi e accoglienti», specifica l’interprete, che si è trovato a proprio agio accanto all’esordiente Campanelli.

«Gli attori cosiddetti “inesperti”, a volte possono essere imbarazzanti, perché non hanno schermi». A differenza del padre-padrone Mero, nella vita vera Sergio è «un padre esigente: invece di chiacchierare, mostro come ci si comporta».

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