Pepper ha due occhioni teneri, le mani minute e morbide: sa ascoltare con pazienza e pone domande pertinenti, non si annoia ed è capace, in un piccoli gruppo, di includere tutti nella conversazione. Pepper, insieme ad altri suoi “colleghi speciali”, rappresenta la nuova frontiera di robot sociali, «capaci di capire anche le emozioni delle persone, decodificando le espressioni facciali », come racconta al
Giornale Lucrezia Grassi, 29 anni, ricercatrice di robotica del Laboratorio RICE del Dipartimento di Informatica, Bioingegneria, Robotica e Ingegneria dei Sistemi (DIBRIS) dell’Università di Genova, laboratorio diretto da Antonio Sgorbissa e Carmine Recchiuto. Grassi ha vinto lo scorso anno il Best Paper Award della IEEE International Conference on Robot and Human Interactive Communication e presenterà i progetti da lei condotti lunedì prossimo al Collegio Nuovo di Pavia (ore 21, in dialogo con Paolo Di Barba, Giovanni Ricevuti e Chiara Toffanin). Grassi tutti i giorni convive con Pepper e altri robot umanoidi e li sta “educando” ad essere anscora più utili alla società: ottimi finora i risultati in ambito medico e sanitario con pazienti affetti da lesioni al midollo spinale e anziani malati di Alzheimer oppure apatici o affetti da delirium. Pepper e gli altri hanno dimostrato capacità di ascolto e pazienza, stimolando con conversazioni appropriate persone in sofferenza. Interessantissimo è poi l’impiego di robot umanoidi sociali in ambito educativo: negli asili e nelle scuole medie dove sono stati testati, sia a Genova che a Perugia, i risultati sono stati promettenti. Si è lavorato sulla dinamica dei piccoli gruppi, di 4 persone per volta, programmando i robot a riconoscere in una conversazione le diverse voci e personalità dei parlanti e individuando chi, eventualmente, restava escluso dal dialogo. «Robot come Pepper – continua Grassi – sono “diversity aware” ovvero sono in grado di comunicare adattandosi all’interlocutore e alle sue diverse sensibilità culturali ed emotive.
Potrebbero avere un impatto positivo nelle scuole primarie, dove ad esempio ci sono bambini stranieri che, con scarsa padronanza dell’italiano, magari rischiano di rimanere esclusi. Nessun robot, tantomeno quelli a nostra disposizione ora, potrà mai sostituire il lavoro di una persona, ma può diventare uno strumento di progresso sociale».