Il nuovo Egitto si presenta con un sabotaggio anti Israele

Se il buongiorno si vede dal mattino, allora il dopo-Mubarak sembra assai poco roseo. Mentre una piazza senza leader sogna l’ultima spallata i demiurghi del disastro prossimo venturo sono già in azione. Il più chiaro segnale della loro presenza è la lingua di fuoco sospesa sul terminal di El Arish, nel nord del Sinai. Li corrono le tubature che garantiscono le forniture di gas a Israele. Lì ieri notte un gruppo di terroristi ha fatto saltare le condotte con una potente carica di esplosivo. La notizia fa il paio con quella rilanciata negli Usa da Fox Tv, che parla di un attentato al vice presidente Omar Suleiman messo a segno negli scorsi giorni. L’attentato, non confermato da fonti ufficiali, sarebbe costato la vita a due uomini della scorta. Anche la notizia del gasdotto ha margini d’incertezza. Mentre il governatore di El Arish Abdel Wahab Mabrouk ammette un sabotaggio, i responsabili del gasdotto parlano di semplice incidente. Difficile crederci. Anche perché lo scorso luglio il gasdotto era già stato preso di mira da una banda di beduini. A dar retta a Site, un gruppo privato che tiene sotto controllo i siti integralisti, l’attacco di ieri sarebbe stato innescato da un messaggio internet che invitava «i fratelli beduini del Sinai, Eroi dell’Islam, a colpire con pugno d’acciaio per bloccare i rifornimenti agli israeliani».
La minaccia degli uomini del deserto è uno dei tanti fattori che contribuiscono a delineare scenari assai grigi nel caso di un passaggio di poteri troppo frettoloso. Le tribù beduine - esasperate da un regime che le ha tenute al margine dello sviluppo turistico del Sinai - sono oggi le protagoniste della coltivazione della droga e del contrabbando di armi diretto verso Gaza. Malcontento e predisposizione per le attività illegali, unite ad una perfetta conoscenza del territorio, hanno trasformato i clan del deserto in un naturale centro di reclutamento per Al Qaida.
Non a caso nel Sinai sono stati messi a segno i sanguinosi attentati che tra il 2004 e il 2006 hanno colpito Taba, Sharm el Sheik e Dahab uccidendo decine di turisti. Non a caso il Sinai è oggi una delle zone più a rischio dell’Egitto. Una zona dove solo i ferrei controlli imposti fin qui dai servizi segreti di Omar Suleiman garantiscono il mantenimento della sicurezza. I primi a saperlo sono gli israeliani impegnati da anni, d’intesa con Mubarak e Suleiman, in una guerra segreta per colpire i carichi di armi che attraverso i tunnel di Rafah raggiungono Gaza. E così la prima conseguenza di una mancanza di continuità politica al Cairo potrebbe essere il ritorno dell’esercito israeliano in quella Striscia abbandonata nell’estate del 2005.
L’altra conseguenza, assai più nefasta, è quella di una progressiva irachizzazione dell’Egitto. Un cambio di poteri che non preveda una sostituzione dell’elite di potere lenta e graduale rischia di consentire alla storia di ripetersi. Nel 2003 a Bagdad si decise di sciogliere un esercito di 500mila uomini e di dare il benservito ad un’elite sunnita al potere da trent’anni. Sunniti e militari, pronti inizialmente a collaborare, si trasformarono ben presto in insorti e terroristi.

Oggi licenziando in tronco i generali e l’aristocrazia di regime che gestisce commerci, industrie, servizi si rischia non solo di spaccare il Paese, ma di affidarlo a chi non è né in grado di governare, né di garantire la sicurezza del territorio. E a quel punto l’Irak sarebbe ad un passo.

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