Obama arriva in Asia e gioca di nuovo la carta della retorica

Barack Obama è prigioniero dei simboli. Arriva in Asia per il viaggio più importante da quando è presidente degli Stati Uniti, ma non riesce a resistere alla tentazione di scivolare sulla leggenda invece di provare a entrare nelle viscere del mondo. In quattro giorni si gioca il futuro strategico dell’America: perché la Cina è nello stesso tempo il suo principale avversario e il suo più importante alleato. Deve dare un impegno contro il protezionismo e una «garanzia» per gli investimenti cinesi in buoni del Tesoro americano che oggi ammontano a poco meno di 800 miliardi di dollari, deve ricevere un’apertura sui diritti umani, sull’accordo climatico, sulla questione nucleare.
Vedrà Hu Jintao, cioè l’unico leader mondiale che lo avvicina per potenza globale. Eppure parte avvolto dal clima che si trascina dalla sua campagna elettorale, vale a dire da un’aspettativa di colore invece che di sostanza, da una connessione di simbologie, di ritualità, di contorno, che mette in second’ordine il centro politico della sua amministrazione. Obama il leggero, il rockettaro, lo showman. Dov’è l’Obama presidente? Farà tappa in Giappone, prima di arrivare a Shanghai. In Giappone dove la visita ha il sapore dell’happening e non dell’incontro bilaterale tra due alleati: le strade di Tokio piene di manifesti, i negozi colmi dei cd con le sue parole trasformate in musica. C’è Yes We Can!, il disco che raccoglie le frasi più famose pronunciate da Obama durante la campagna elettorale, compreso il celebre slogan, mixate ad alcuni brani di musica classica. Dentro le versioni con i brani di John Williams (l’autore della colonne sonore dei film di Steven Spielberg) e Leonard Bernstein come sottofondo musicale. Il grido «Fired Up?» è accompagnato dalla più famosa marcia militare di Elgar, mentre altre citazioni celebri sono mixate con brani tratti da sinfonie di Dvorak e Rachmaninov. Le parole di Obama sono prese dal famoso discorso alla Convention democratica del 2004 (che lanciò la sua carriera politica), dal discorso della vittoria la sera del 4 novembre 2008 a Chicago e da altri celebri momenti della sua campagna elettorale. La frase «La mia storia...», usata più volte, ha come sottofondo le note immortali dell’Intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni. Tra gli slogan del Cd c’è anche «Change», usato con successo anche dal premier giapponese Yukio Hatoyama nella sua campagna elettorale. Il Cd costa 1.890 yen, poco più di venti dollari, e sta avendo molto successo in Giappone, dove Obama è ancora una superstar. Come i Beatles negli anni Sessanta e come i Tokyo Hotel ora, per rimanere in tema.
Sì, ma dov’è la ciccia? Questa è una metafora perenne dalla quale il presidente non riesce a sfuggire. Anche politicamente è imbrigliato nella stessa mitologia che ha creato. Alla vigilia del viaggio asiatico ha annunciato un prossimo viaggio a Hiroshima e Nagasaki, dove nessun presidente Usa è mai stato. Simbologie, appunto. Così come la visita in Normandia nell’anniversario del D-Day, oppure il discorso della porta di Brandeburgo nella sua prima uscita europea a voler simboleggiare la continuità con il kennedismo, oppure ancora i viaggi in Africa, a Cape Coast dove il primo presidente nero insieme alla famiglia fece tappa in una delle fortezze in cui venivano rinchiusi e poi deportati gli schiavi per un viaggio senza ritorno verso l’America e i Caraibi. Comunicazione, retorica, allegoria: Obama non sfugge, convinto evidentemente di essere ancora in campagna elettorale permanente sia in patria sia all’estero, carico di un trasporto emotivo che comincia a essere stonato rispetto all’idea di una nuova era americana. La presidenza quando comincia?, si chiedono i commentatori americani.

Le decisioni, gli incontri senza strascico quell’eccessivo mediatico che supera il contenuto, il rigore, la leadership. Questo viaggio avrebbe dovuto essere il primo passo. Obama nuovo, Obama politico, Obama capo di Stato. Hu Jintao lo aspetta, ma i giornali cinesi più furbi dicono che a Pechino qualcuno senta nostalgia di Bush.

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