Un Obama cauto, forse fin troppo, con una sola grande preoccupazione: l'economia. «Faremo di tutto per far uscire l'America da una crisi gravissima», ha dichiarato ieri durante la sua prima conferenza stampa, attesissima ma alla fine prova di sostanziali novità. Non ha annunciato il nome del segretario al Tesoro, non è entrato nel dettaglio delle misure che intende proporre ed è stato attento a evitare qualunque attrito con l'amministrazione uscente. Sul leggìo ha fatto apporre l'insegna «presidente eletto». Già, eletto. Quello in carica è George Bush fino al prossimo 20 gennaio. Barack lo ha ricordato per ben due volte e ha insistito su un punto: «La più lunga campagna elettorale della storia americana è finita. È giunto il momento di accantonare la partigianeria e di lavorare con spirito bipartisan per il bene dell'America».
Per rafforzare il messaggio ha fatto schierare alle sue spalle i suoi consiglieri economici, tra cui il finanziere Warren Buffett, l'ex presidente della Fed Paul Volcker, gli ex ministri al Tesoro Rubin e Summers, il numero uno di Google Eric Schmidt e l'ex vicepresidente della Fed, oggi a capo del fondo pensioni dei dipendenti pubblici, Roger W. Ferguson. Nomi pesantissimi. Come dire: se loro hanno fiducia in me possono averla anche gli americani e Wall Street.
Obama ha ribadito la necessità di varare al più presto il piano per rilanciare la crescita economica. «Spero che venga approvato nelle prossime settimane», ha affermato facendo riferimento, implicitamente, al pacchetto da cento miliardi di dollari proposto negli ultimi due giorni dallo speaker della Camera, Nancy Pelosi. «Ma se non sarà possibile me ne occuperò in prima persona non appena assumerò i poteri alla Casa Bianca».
Ma è «solo un primo passo, altre misure seguiranno», in particolare per mantenere le promesse formulate a più riprese in campagna elettorale, in particolare la riduzione delle tasse per chi guadagna meno di 200mila dollari e di quelle sul capitale per le piccole imprese. Obama ha ipotizzato misure a sostegno dei proprietari di case vittime della crisi dei subprime, ribadendo la sua filosofia: non bisogna limitarsi a tamponare le falle, ma occorre varare misure per rendere più solida e dinamica l'economia nazionale. E creare nuovi posti di lavoro: un obiettivo cruciale nel giorno in cui il tasso di disoccupazione è salito ai massimi degli ultimi 14 anni. La crisi finanziaria sta colpendo l'economia reale molto più velocemente del previsto. «La sfida che ci attende è enorme e occorre agire con determinazione - ha dichiarato Obama con solennità -. Uscire dalla crisi non sarà facile né rapido, ma sono convinto che alla fine gli Usa ce la faranno e torneranno a crescere più forti di prima».
«Questa crisi è globale e richiede risposte coordinate con gli altri Paesi», ha precisato, senza però entrare nel merito. Contrariamente a quanto ventilato nei giorni scorsi, il senatore dell'Illinois non assisterà al G20 sulla crisi finanziaria in programma il 15 novembre a Washington. E in conferenza non ha affrontato temi di politica estera, con la sola eccezione dell'Iran, in risposta a una domanda sulla lettera di congratulazioni inviata da Ahmadinejad: «Risponderò nei prossimi giorni, ma non cambio la mia posizione: Teheran deve rinunciare ai piani di riarmo nucleare e deve smettere di finanziare gruppi terroristi».
Ieri General Motors ha annunciato di avere le casse quasi vuote, mentre anche Ford e Chrysler sono in fortissime difficoltà. Si materializza lo spettro del fallimento l'industria automobilistica americana, che avrebbe ripercussioni enormi sull'indotto e sulla rete commerciale con la prevedibile scomparsa di decine di migliaia di posti di lavoro. Uno scenario spaventoso che Obama non ha ignorato.
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