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Obama nella storia: "Io sono il cambiamento"

Al Grant Park la festa per l'elezione del primo presidente nero degli Usa: il sognatore pragmatico che non ha perso una sfida. Tra le lacrime di centinaia di migliaia di persone Barack: "Questa è la vostra vittoria" (leggi il discorso integrale)

Obama nella storia: "Io sono il cambiamento"

Chicago - L’era Obama è una lacrima. Scende sul volto di una ragazza che sta scattando una foto al maxischermo del nuovo Presidente. «Non ci riesco, tremo. Questo è un sogno». Lei è alta, ha gli occhi castani. È bianca. Piange mentre Barack Obama sale sul palco e comincia a ringraziare. Perché? «Non lo so perché. Voglio piangere». Lui arriva: «Thank you, thank you». Le bandiere, lo «yes we can» che si alza come un coro da stadio. Obama è serio, fiero, presidenziale. Loro, di fronte a lui, non smettono di urlare. Sono le 10.04 di sera a Chicago. Segna l’orario, servirà prima o poi. Domani sulle bancarelle di South Michigan Avenue c’è chi venderà magliette, spille, penne. Un dollaro per ricordare agli altri di essere stato qui, nel cuore della storia, in una festa che parte con le note di Sweet Home Chicago e si allunga fino alle prime parole di Obama. «Se c’è ancora qualcuno che dubita che l’America sia un luogo dove tutte le cose sono possibili; che ancora si chiede se il sogno dei nostri fondatori sia sempre vivo; che ancora si interroga sul potere della nostra democrazia: questa notte è la vostra risposta». Giù lacrime, ancora. Mischiate a sorrisi, urla, flash infiniti. C’è la gente comune, c’è Oprah Winfrey che per la prima volta nella sua vita non trova le parole. Commossa come la sua vicina di notte, una ragazza sconosciuta che l’abbraccia come se stessero festeggiando Natale a casa. Non ci sono differenze, per caso, per un gioco cromatico che sembra creato apposta dagli studios di Hollywood: il bianco, il nero, la ragazza con il velo, il pastore protestante. Giovani, adulti, anziani. Come se questa sera abbatta le differenze e le diffidenze. È l’illusione, la magia che arriva quando la Cnn fa suonare il simbolo dell’ultima proiezione: Obama è presidente degli Stati Uniti. Prima no, prima lo sapevano tutti, ma non lo diceva nessuno, anche quando era già scontato. Il bollo della certificazione, lo schiaffo che ti dice che sei sveglio. Solo allora il boato. Duecentocinquantamila persone, più il resto della città che si muove per venire qua intorno. La gioia, le lacrime. Ognuno reagisce come vuole, compresi i poliziotti schierati a proteggere la festa: quasi tutti neri, con gli occhi lucidi.

Ci sono caroselli, continueranno tutta la notte, poi il giorno dopo, perché l’isteria non si ferma, l’idea di aver fatto la storia contagia: non c’è un solo giornale disponibile in tutte le più grandi città d’America, non c’è altro argomento in tv, non c’è altro che si senta per le strade, negli ascensori, negli Starbucks. All’angolo tra South Michigan Avenue e Jackson Street ne parlano anche due homeless. Perché non è solo una notizia. È la vita. È politica, ma anche show, un happening infinito che aspetta solo di sentirsi ripetere quello che Obama dice: «Questa è la vostra vittoria, voi che siete andati in massa a votare. Voi che avete scelto». Altro boato. Obama s’è preparato, ha passato le ultime ore della giornata a casa, con la famiglia. Ha giocato a basket per scaramanzia, esattamente come il giorno dopo accompagnerà in palestra le figlie Sasha e Malia vestito come un padre normale, con il cappellino da baseball e gli occhiali da sole. Normale la vigilia, normale il giorno dopo. Straordinaria la notte. Unica. Fatta di sapori, di odori, di colori. Bianco-rosso-blu: sulle guance delle ragazze che si scrivono Obama per marchiare sul corpo la loro giornata indimenticabile, sulle magliette vendute a migliaia, sui pass degli accreditati che si muovono avanti e indietro per capire che cosa succede, nello studio della Cnn che proietta le sue immagini sul maxi-schermo.

Bianco-rosso-blu. Nessuno parla di nero, non per pudore, né per correttezza: semplicemente qui, nella notte di Chicago, sembra non contare davvero. Quando Biden sale sul palco con la sua famiglia, mescolata agli Obama, è come se nessuno se ne accorga. Bisogna fare una foto, perché poi un giorno qualcuno tirerà fuori il momento in cui l’America ha fatto la sua storia. Bisogna registrare, perché la voce di Obama resterà: «Questa è la risposta pronunciata da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani, gay, etero, disabili e non disabili: americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati semplicemente un insieme di individui o un insieme di Stati rossi e Stati blu. Noi siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d’America». Eccolo il momento. «Yes we can», ripete ancora Obama. La gente gli risponde. Si può. Urla il suo motto, il suo slogan che rimarrà eterno. Senza colore. A Chicago, nel resto d’America.

Qui il mondo non serve.

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